29 gennaio 2009

Di Pietro è un uomo contro il Paese

Questa volta il forcaiolo d’Italia ha valicato una punta ancora più alta del suo reiterato delirio. Nell’attacco di Antonio Di Pietro e dei suoi amici alle istituzioni è coinvolta la funzione del Parlamento, la legittimità del Governo e l’onorabilità del Presidente della Repubblica. Si avverte un’offesa al Paese, alla maggioranza dei suoi cittadini, alla democrazia ed alla dignità del confronto politico. Si ha l’impressione che l’alzo del tiro sia conseguenza del basso livello di popolarità che Di Pietro e l’intero movimento dell’antipolitica stia registrando e che si usino, ancora una volta, le espressioni più colorite ed irriguardose verso le istituzioni per riscaldare le piazze, come usano fare i dittatori che hanno bisogno d’inventarsi un nemico per soddisfare la rabbia del popolo.
E’in atto con Di Pietro, col suo partito e con la compagnia dell’antipolitica, una vera deriva sfascista dell’opposizione politica. Una deriva a cui presta il fianco Veltroni ed il Partito Democratico, incapaci di scrollarsi di dosso la stretta mortale dell’ex magistrato. C’è la percezione di un attacco forsennato, irrazionale, viscerale e violento alla democrazia, alla libertà, alla serietà, alla governabilità del Paese, oltre che alla legittimità istituzionale dei suoi rappresentanti.
Il giorno dopo della Giornata della Memoria, per meditare sull’Olocausto, il metodo Di Pietro, fatto d’odio e di condanne sommarie e pregiudiziali, induce ancor più a riflettere.
La ferocia e le espressioni più atroci dell’animo umano covano sempre nell’intolleranza e nell’ignoranza di quegli uomini che adottano le teorie giustizialiste e fondamentaliste per esercitare le proprie vendette, per appagare le proprie frustrazioni o ancor più semplicemente per arricchire il bottino delle invasioni nei luoghi della discussione e della rituale dialettica politica, saccheggiando le coscienze ed inficiando le conquiste di spazi di civiltà e di democrazia.
Nessuna attenuante, nessuna giustificazione politica, può essere concessa a chi non ha mai proposte da avanzare ma solo dosi di veleno da somministrare al Paese.
Quello del percorso disfattista e reazionario è un indirizzo che accomuna tutti gli uomini impulsivi ed autoritari e tutti i demagoghi, anche se nel caso in questione si tratta solo di un furbo ex magistrato che non ha ancora spiegato al Paese i veri motivi del suo abbandono della magistratura per abbracciare, sull’onda della notorietà per le sue prestazioni eterodosse nelle istruttorie processuali, la carriera politica.
Gli spunti vengono dai provvedimenti di questo Governo in tema di Giustizia, dalla legge nota come “Lodo Alfano” mirante ad impedire che le quattro più alte cariche dello Stato, nel corso del mandato, possano essere sottoposte a processo penale, dalle iniziative per le limitazioni alle intercettazioni telefoniche e, ancor più a valle, dalla riforma dell’Ordinamento Giudiziario.
C’è una crisi della giustizia che è tangibile e che è avvertita dai cittadini e dalle istituzioni. La Corte di Giustizia Europea sottopone a più riprese l'Italia a formale condanna con le conseguenti sanzioni per i casi di giustizia negata, per i casi di giustizia deviata e per i casi di giustizia male erogata. Prendere atto della necessità di cambiare le cose e prendere l’iniziativa di modificare l’ordinamento giudiziario diventa indifferibile ed urgente, mentre, al contrario, ostacolare e difendere nel complesso l’esistente diventa colpevole ed omertoso.
C’è inoltre la necessità di rasserenare il confronto politico e sociale nel Paese, e non solo per poter tranquillamente analizzare e risolvere le questioni della giustizia, ma anche perché c’è una crisi difficile da cui è possibile poter uscire senza grossi traumi, ma con il sostegno, l’aiuto e, laddove possibile, con la fiducia di tutti, ad iniziare dalle forze politiche e dalle rappresentanze sociali.
I tentativi reiterati di Di Pietro di avvelenare i pozzi del confronto, per raggiungere fini politici di parte, devono preoccupare. Si constata l’incapacità dell’opposizione di isolare la deriva illiberale e frenante del leader dell’Idv, mentre occorrerebbe che si faccia interprete della necessità delle riforme. La questione morale passa anche attraverso la capacità di rinnovare le funzioni dello Stato, di responsabilizzare la politica, di riformare la giustizia e di fornire sistemi elettorali che, assieme alle possibilità di scelta degli elettori, assicurino la governabilità.
L’Italia non ha bisogno di odio e di giustizialismo, ma di giustizia e di riforme.
Vito Schepisi

26 gennaio 2009

Nella Giornata della memoria accanto al popoo ebraico


Ogni anno c’è sempre la solita incertezza. C’è il timore di essere retorici, di ripetere come replicanti le tante ragioni di un insieme di coscienze che ricordano con scadenza periodica, come in un rito, l’ingiustificabile debolezza dell’animo umano. Ogni anno ci ritroviamo a pensare alla leggerezza dell’equilibrio dell’uomo, quando, coinvolto dagli effetti dopanti dell’odio e dell’intolleranza, si ritorce contro la dignità della sua stessa specie ed annulla d'un colpo tutti i traguardi raggiunti sul piano della sua evoluzione culturale e della sua civiltà.
Il 27 gennaio del 1945 l’avanzata russa in Polonia liberava il campo di deportazione di Aushwitz dove nelle camere a gas i nazisti avevano sterminato decine di migliaia di ebrei deportati, poi arsi e resi cenere nei forni crematori.
Per non dimenticare, con la Legge 20 luglio 2000, n. 211, “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Ogni anno si ripetono così le stesse parole, si ricordano le stesse immagini, gli stessi racconti, si leggono le stesse poesie, con l’impegno coralmente condiviso di non consentire che crimini contro l’umanità, come l’Olocausto del popolo ebraico, abbiano più compimento.
Fanno eccezione solo un manipolo di ipocriti, di cinici uomini accecati dall’odio, di spietati e sanguinari carnefici che negano persino ciò che non è possibile negare. Negano le testimonianze di chi è sopravissuto, negano tutto ciò che si legge sulle riviste e sui libri di storia, negano persino ciò che è possibile vedere e giudicare dalle foto, dai filmati, dalle stesse strutture fisiche degli orrori, rimasti a testimoniare la più grande e crudele persecuzione della storia, la più orrida di una idea folle sulla razza, una fobia che è diventata strumento di persecuzione e di morte. Fa impressione, in proposito, leggere di un vescovo, adepto del negazionismo dell’Olocausto, riabilitato in questi giorni dalla scomunica nell’ambito dello scisma lefebvriano.
Esiste allora il timore d’essere retorici e replicanti? E’ giusto ogni anno ricordare e riscrivere gli stessi concetti? Possiamo dimenticare come se la follia nazista sia stata solo una parentesi superata della storia dell’umanità? E’ giusto cancellare il ricordo e ritrovare i motivi di una stessa origine umana che supera gli steccati della razza, della religione e delle diverse culture?
La risposta è, senza dubbio, no! E’ una risposta negativa perché non appare per niente superata la stagione delle follie, perché reiterare ciò che è stato fa parte dello storicismo culturale del mondo, e non solo per una questione di corsi e ricorsi teorizzati da Vico, ma per quella forma di pensiero in cui la verità non è ciò che è, ma ciò che serve, come una ragione diversa che si afferma per servire ad uno scopo.
Di questa natura dell’uomo si potrebbero portare esempi storici italiani come le “verità” mitizzate della resistenza, o il “paradiso” comunista, la “liberazione” titina della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia e persino l’ispirazione popolare del marxismo, ma anche esempi recenti.
Fra quest’ultimi le forme di manipolazione della realtà con l’informazione finalizzata a perseguire scopi diversi, utili a servire una causa. Come il metodo dell’informazione di Santoro, nella trasmissione “Annozero” sulla guerra nella striscia di Gaza, che si è servito delle sofferenze dei bambini palestinesi per focalizzare l’attenzione sulle responsabilità d’Israele.
Dar voce ad Hamas contro Israele, com’è stato fatto, e senza un accenno di distinzione e di confronto, è un crimine culturale contro l’umanità. Sarebbe bastato a Santoro leggere alcuni passi dello Statuto di Hamas per comprendere, ed informare su quanto orrore ci sia in una guerra voluta per attirare l’attenzione internazionale sui bombardamenti e dove le donne ed i bambini dovevano essere le vittime innocenti sacrificate da Hamas.
Ogni anno, dunque, deve essere un dovere morale ricordare: per non dimenticare mai!
Vito Schepisi

23 gennaio 2009

Epifani e Di Pietro: cos'hanno in comune?

Non me ne voglia Epifani. Ha i modi, lo spessore culturale, un’educazione diversa, ma il suo compito tra i sindacati, nella Cgil, è lo stesso di quello che il leader dell’Idv Antonio Di Pietro assume nell’ambito della lotta politica.
Epifani per i suoi pregiudizi è come il magistrato spogliato Di Pietro.
C’è in Italia un’opposizione imbalsamata dal leader dell’Idv che sembra aver per missione quella di impedire il dialogo, la civiltà del confronto, le riforme.
Di Pietro gestisce un partito che, per sottrarre al PD i consensi della componente più intollerante e caciara, in modo pregiudiziale, si rifiuta di affrontare il confronto sulle diverse questioni della politica, riducendo tutto il suo impegno all’assunto di rappresentare e promuovere la legalità. Come tutti i demagoghi fa leva sulla protesta, lo scontento, l’invidia e la rabbia per infiammare gli animi, come gli abbiamo visto fare a Fiumicino per la questione Alitalia. La sua immagine è quella della farsa di una marcia su Roma in lessico molisano.
Di Pietro, coi dubbi e le contraddizioni delle tante domande senza risposta a cui è sottoposto, è in continua ricerca di visibilità; è tignosamente impegnato a sottrarre spazio politico al PD. Attrezzatosi con le compagnie giuste per acquisire consenso nell’aria del qualunquismo reazionario e forcaiolo, si è assunto il ruolo di impedire le riforme e di conservare un’Italia obsoleta, incapace di esprimersi con rapidità, intrecciata tra poteri, caste e privilegi: insomma, un’Italia che indigni!
Epifani, nel sindacato, alla pari di Di Pietro, reitera i suoi no ad ogni iniziativa che possa rigenerare il rapporto responsabile delle organizzazioni sociali con i lavoratori e l’impresa, con il Paese e la produttività, con lo sviluppo e l’efficienza.
C’è nell’azione del leader della Cgil un visibile impedimento alla creazione di una contiguità virtuosa tra il merito, l’efficienza, la produttività e la crescita professionale del mondo del lavoro. C’è una barriera culturale di vetero marxismo o di anarchico menefreghismo che non si smuove e non si evolve, anche se le nuove frontiere del mercato rivoluzionano l’economia e se i venti della crisi recessiva pongono con serietà l’esigenza di riflessioni profonde.
C’è stata, infatti, questa riflessione nel sindacato e nelle associazioni di categoria. C’è stata convergenza sui principi della responsabilità, del merito e della valorizzazione della produttività. C’è stata, e senza che la cosa sia apparsa come uno scandalo, la preoccupazione del sindacato per la collocazione dell’azienda sul mercato, per la sua sorte e per tutte quelle questioni che sono state oggetto di dotte teorizzazioni (qualità – sicurezza – occupazione), anche nei convegni sindacali, ma che stentavano a diventare parte di un comune sentire e di una responsabile gestione aziendale.
Si è sfilata ancora una volta la Cgil di Epifani, sospinta sulle posizioni più estreme della FIOM, sin da quando il governo del Paese è passato dalle politiche del massacro dei lavoratori di Prodi, alle aperture sui diritti relazionati ai doveri dell’attuale governo.
E’ stata una giornata storica per le relazioni sindacali, quella del 22 gennaio 2009, che avrà la stessa valenza degli accordi per lo statuto dei lavoratori del 1970 (legge n. 300) e degli accordi sulla scala mobile del 1992.
L’accordo è su di un modello contrattuale valido per tutte le categorie pubbliche e private. Modificherà l’attuale rapporto conflittuale, nella stipula dei contratti, con un approccio condiviso alla contrattazione di primo livello, per poi, con il secondo livello di contrattazione, favorire la produttività e la valorizzazione decentrata dei salari. Alle dinamiche salariali verranno applicati non più i criteri dell’inflazione programmata ma quella degli indici revisionali dei prezzi ed inoltre sarà introdotta la possibilità di correttori salariali rivenienti da incentivi e da sgravi.
“Lavoro e salario – ha dichiarato il leader della Uil Angeletti - riacquistano la loro dignità”. Una vera rivoluzione, frutto di impegno delle parti sociali e del governo, con un’ampia adesione delle parti, ma con l’ostacolo della Cgil che sulle conquiste del mondo del lavoro continua a far sentire tutta la sua assenza.
Epifani somiglia sempre più a Di Pietro, disinteressato al Paese, per inseguire solo il suo odio.
Vito Schepisi

20 gennaio 2009

Nell'attesa di vedere all'opera Obama, salutiamo George Bush

Ci sono circostanze in cui ciò che appare è solo un’immagine virtuale e ciò che poi si materializza può essere solo un fantoccio di carta che si infiamma al primo fuoco, per poi disperdersi immediatamente non rilasciando né luce e né calore. Speriamo che non sia questa l’immagine successiva all’evento del giorno in cui il nuovo Presidente degli States si insedia alla Casa Bianca ed assume il ruolo di Leader della potenza economico-politico-militare più potente del mondo.
Per ora, nell’attesa di vederlo impegnato sulle questioni calde della Terra, salutiamo l’uscente Gorge Bush, un amico del nostro Paese.
Molti italiani l’hanno apprezzato per la sua sensibilità e per la sua fermezza e ci piace ricordare, a tal proposito, quella mostrata nel 2007 a Roma nel respingere i tentativi della diplomazia Prodi - D’Alema di assegnare a questa sua visita un basso profilo. Piace ricordarlo soprattutto per la sua indifferibile volontà, nonostante la visibile irritazione di Prodi, d’incontrare l’amico Silvio Berlusconi, minacciando altrimenti di disdettare la visita.
Bisognerebbe prendere atto che un Presidente degli Stati Uniti, fosse solo per la sterile logica statistica, non può essere esente dal commettere errori. E’ l’uomo più potente del mondo con i suoi amici ed i suoi nemici, con le sue simpatie ed antipatie, con i suoi programmi ed i suoi sogni, ma anche con i suoi grandi elettori, le sue lobbies, le sue contraddizioni, le sue debolezze.
E Bush Jr. di errori ne ha commessi tanti, ma non più di altri. Ha ridato, però, un’identità agli USA dopo l’11 settembre, con l’orgoglio maturato nella consapevolezza d’essere l’epicentro dell’odio di quel fondamentalismo odioso che vede nel paese americano la terra del “diavolo” e la centrale dei valori occidentali da cui emerge la cultura dell’uguaglianza e della libertà, o dei diritti fondamentali, come sostiene su “il legno storto” l’amico direttore Marco Cavallotti.
Esce di scena un grande Presidente, nonostante l’odio ideologico neo-comunista di quanti mettono persino in discussione la tragedia delle Twin Towers a New York e parteggiano per Hamas o Hezbollah e sostengono, come l’ex ministro degli esteri italiano Massimo D’Alema, il diritto alla tecnologia atomica dell’Iran di Ahdaminejad.
Un grande Presidente che nelle difficoltà dei mercati, in quello del sistema economico americano, scosso dalla globalizzazione senza regole, nell’altalena del prezzo del greggio, tra le banche che deflagravano nella bolla della speculazione finanziaria, in piena crisi recessiva mondiale, ha saputo mantenere ferma la rotta, ricercando e trovando le misure più opportune per ridare nuovo impulso all’economia americana, e con esso coraggio e fiducia ai mercati del mondo.
Bush ha attraversato la storia in uno dei periodi più difficili per l’America e per l’intero modello occidentale. La guerra al terrorismo ha riacceso la tensione mondiale. Ma chi può dire oggi che, senza una presa d’atto coraggiosa dell’ardire spietato contro i sentimenti d’umanità propri della civiltà occidentale, le questioni del mondo avrebbero avuto un percorso di maggior sicurezza?
La storia, ma soprattutto gli eventi futuri potranno dare risposte più concrete ai dubbi ed alle preoccupazione di oggi. Resta, però, la convinzione che non si vince niente, neanche la pace, nell’inerzia e nella passiva rassegnazione ai soprusi. E’ come nelle strade delle nostre città in cui non hanno affatto ragione coloro che gridano di più o che occupano gli spazi che simboleggiano le nostre radici e le nostre tradizioni popolari. La tolleranza non può prescindere dalla dignità e dalla fermezza nel non consentire che siano offesi i sentimenti popolari, perché questi sono i valori del nostro comune sentire e le ragioni che uniscono la nostra comunità nazionale.
Arriva Obama, ma chi si aspetta che le questioni si risolvano, come se il nuovo presidente avesse la sua ricetta magica, incorre in più di un errore. Anche l’affermato approccio diverso ai problemi non è di per se una soluzione, ma soltanto un modo diverso di affrontarli. La questione economica e la recessione sono una realtà oggi e lo saranno per l’immediato futuro. La questione mediorientale registra solo una tregua di Israele, si pensa proprio in omaggio ad Obama, nella lotta tutta sua “singolare” contro il terrorismo palestinese che si intreccia con quello fondamentalista islamico, mentre l’Iran continua ancora a lavorare per realizzare la sua bomba atomica.
Auguri Mr. Obama!
Vito Schepisi

19 gennaio 2009

Hamas: se non te ne vai, ti meno!


Può sembrare comico ma l’impressione che se ne ricava è quella del bulletto che attende che il suo contendente giri l’angolo per gridare sottovoce: “se non te ne vai, ti meno”. Anche se ha molto poco di allegro la faccenda a cui la si collega.
E’ così che nella Striscia di Gaza la tregua unilaterale proclamata da Israele viene fatta passare per il ritiro delle truppe della Stella di Davide e per la vittoria di Hamas.
Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza in un discorso televisivo ai palestinesi di Gaza rivendica la vittoria del suo movimento: "Dio ci ha dato una grande vittoria, non solo per una fazione, o un partito o un movimento ma per il nostro intero popolo. Abbiamo fermato l'aggressione e il nemico non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi".
I miliziani palestinesi ci provano anche a dettare le loro condizioni, dando sette giorni di tempo alle truppe israeliane per ritirarsi completamente dai territori di Gaza. E’ lo spirito del “se non te ne vai ti meno!”, ma solo dopo che il contendente, meno gradasso, valutando per raggiunti gli obiettivi politici e militari, fa invertire la marcia dei suoi blindati!
E’ bene ricordare che l’azione armata di Tel Aviv nella Striscia è nata per la rottura unilaterale della già instabile tregua da parte di Hamas e per lo stillicidio continuo dei lanci dei razzi Qassam diretti contro le città e le popolazioni civili nei territori del sud dello Stato ebraico. L’intervento militare aveva due fini dichiarati: quello della distruzione dei varchi, a Sud della Striscia di Gaza, da cui passavano, nonostante la tregua negoziata dall’Egitto con Hamas nel giugno del 2008, le armi ed i razzi usati dai guerriglieri, e quello di impedire il loro lancio verso il territorio israeliano.
Un altro obiettivo, non dichiarato, ma implicito, era quello di indebolire in quei territori il potere di Hamas.
Alla situazione attuale non è dato sapere se gli obiettivi di Israele siano stati tutti completamente centrati. Sembra di no! Almeno non quello di impedire del tutto il lancio degli ordigni verso Israele, che è un risultato difficile da raggiungere appieno: i razzi, infatti, partono dal mezzo degli insediamenti urbani, tra la popolazione civile, tra le donne ed i bambini di cui i guerriglieri si fanno scudo. E’certa, però, ed è triste, quella cruda realtà delle molte vittime innocenti e si può pensare che l’obiettivo di Hamas, di impietosire il mondo con il sangue di donne e bambini, sia stato, invece, sufficientemente raggiunto.
Sui risultati politici è invece difficile far previsioni. Se la guerra, infatti, rafforza l’odio verso il nemico, nel nostro caso dei palestinesi verso Israele, è anche vero che la popolazione attribuisce ad Hamas la responsabilità delle molte vittime civili e che, ai sentimenti di vendetta, sa alternare anche la voglia di moderazione e di pace.
I guerriglieri di Hamas rendono proprio l’idea dei bulletti di cui si diceva prima e, mentre le forze armate dello Stato ebraico volgono ora in ritirata, sospinte anche dalla pressione internazionale preoccupata ed impietosita per le vittime innocenti, loro cantano vittoria, invece di avvertire le loro responsabilità e di piangere le loro vittime.
La gente del mondo ha, però, il dovere di sapere, malgrado i Santoro e l’indecenza dei pseudo-pacifisti, sedicenti schierati dalla parte dei deboli per nascondere le turbe di un’ideologia anti-occidentale, che in questa contesa i bulletti di Hamas, per mal compreso eroismo, più che la loro vita hanno messo a rischio quella di migliaia di civili, dietro i quali si sono vilmente nascosti.
Nessuno, con onestà, può non vedere chi voglia davvero la pace e chi invece soffia sul fuoco.
E’indecente, almeno quanto l’arroganza di coloro che sostengono dal servizio pubblico le ragioni del terrorismo, trasformare la codardia degli uomini di Hamas nell’indignazione che investe la civiltà occidentale mentre osserva inorridita l’ingiusto sacrificio di donne e bambini.
I criminali, e questa è la riprova, adottano sempre la stessa cinica strategia: usare i civili come scudi umani per ricatto o per impietosire il mondo. I miliziani di Hamas, come quelli del 2006 di Hezbollah nel Libano, in questa infamia ci ricordano i metodi di Saddam Hussein e di Milosevic, ritenuti già responsabili di crimini contro l’umanità.
Vito Schepisi

15 gennaio 2009

Di Pietro risponda almeno alla prima e fondamentale domanda!

Sin dall’inchiesta sugli appalti di Napoli, la stampa nazionale scrive degli intrecci compromettenti tra gli affari, gli appalti, i favori e personaggi legati a Di Pietro ed al suo movimento politico.
La magistratura fa il suo lavoro e ci auguriamo che la giustizia svolga serenamente il suo corso, soprattutto per fare chiarezza sulle circostanze e sui riscontri che ci sono sembrati inquietanti.
In questo caso, però, si ha la sensazione che la giustizia si muova con metodi ed atti differenti dai casi simili. Non riusciamo, infatti, a dimenticare, sempre in Campania, l’arresto della signora Mastella, allora moglie del ministro della Giustizia, sulla base di intercettazioni telefoniche in cui ci sembrava che di preoccupante ci fosse molto meno. Ma sarà solo una nostra impressione!
Nelle telefonate di Cristiano Di Pietro con il Provveditore alle Opere Pubbliche di Molise e Campania, Mautone, ad esempio, emergono segnalazioni, e metodi di gestione dei favori, molto particolari, tipici di un rapporto di reciproca opportunità, come la consegna, ad esempio, allo stesso Di Pietro Jr. della lettera di incarico per un raccomandato. E’ un metodo clientelare, quest’ultimo, molto coinvolgente e certamente privo di assoluto valore morale. E pensare che il papà Antonio aveva dato del “magnaccia” a Berlusconi per la segnalazione per un provino ad alcune attricette!
Non ci interessa, però, Cristiano Di Pietro, non ci sembra un personaggio politicamente importante, ci interessa, invece, lo stile ed il modo di far politica di suo padre. Ci interessano i valori a cui si richiama, e la cruda durezza dei suoi attacchi sia ai partiti che alla legittimità dei suoi avversari, in particolare di quelli che hanno il consenso della maggioranza degli italiani.
In Italia dalle ultime elezioni si attende ancora di capire se per l’Idv la maggioranza sia legittimata a governare in nome del popolo; se sia giusto che l’opposizione si faccia in Parlamento, con gli strumenti della democrazia e della Costituzione, e se l’opposizione, compreso Di Pietro e la sua associazione familiare, l’Idv, abbia tra i valori anche quello del confronto.
Sarebbe poi un grande successo democratico se i gruppi di minoranza in Parlamento, compresa l’Idv di Di Pietro, riuscissero a formulare proposte politiche alternative che non si limitino a denigrare, anche con meschinità, i ministri, ma a fronteggiare un programma di governo attraverso proposte alternative ritenute più proficue per il Paese.
Non c’interessa, si diceva, Di Pietro Jr, anche se c’è difficoltà a capire perché debba fare politica, avendo fondati dubbi che, se non fosse stato figlio dell’ex PM di Mani Pulite, avrebbe scelto ugualmente di percorrere anche questa carriera, per la quale constatiamo che non sia affatto portato.
Di Pietro padre sta subendo un attacco serrato da alcuni quotidiani e riviste. Ci dispiace che ciò avvenga, perché siamo contrari alla gogna mediatica. Ci sono, però, dei dubbi che vanno chiariti. Su alcune questioni c’è una nebbia che va diradata. Nessuno è perfetto ed il personaggio è più da “grande fratello” che da protagonista politico: sarà questa la ragione della grande curiosità!
Il Giornale ad esempio, gli chiede da settimane di dar conto di alcune vicende, ma le sue risposte, quando non sono offese e minacce, non sono chiarificatrici e sembrano, invece, piuttosto evasive. Tra le domande su tante questioni immobiliari, finanziarie, societarie, giudiziarie e fatti per cui ci auguriamo che la giustizia faccia al più presto chiarezza, ce n’è una che da tempo è rimasta senza un’esplicita e definitiva risposta. Si vorrebbe da più parti conoscere i motivi della sua “fuga” dalla magistratura, avvenuta quando il magistrato Di Pietro era al massimo della popolarità.
L’ex PM aveva invocato la creazione di una “Mani Pulite” mondiale, anche se aveva l’aspetto di una deriva giustizialista della politica, come accade per i regimi fondamentalisti, che sembrava emergere da uno dei suoi tanti deliri di onnipotenza.
Un magistrato che ha la pretesa di ricondurre alla eticità delle scelte la politica, sia a livello nazionale che mondiale, e che fa del suo impegno sulla giustizia una missione per la moralizzazione della vita pubblica, non lascia la magistratura, per poi, dopo qualche manfrina, mettersi in politica e farsi eleggere al Mugello, in un collegio blindato post comunista, da quel partito che lui aveva evitato di indagare da magistrato, desistendo dinanzi alle sole dichiarazioni di diversità che poi si sono mostrate infondate.
Allora Di Pietro ci dica con chiarezza, a parole sue, perché ha lasciato la magistratura?
Vito Schepisi

12 gennaio 2009

La Lega, la civiltà e la responsabilità

Un Partito di Governo ha maggiori responsabilità verso i cittadini di una componente politica di opposizione. L’immagine e la coerenza, oltre alla serietà ed alla imparzialità verso tutti, sono i requisiti essenziali perché appaia indiscutibile che non si sta al governo contro qualcosa, ma per realizzare la volontà degli elettori su programmi chiari e trasparenti.
A volte, però, si ha idea che sia noioso e stancante avere l’onore di rappresentare la maggioranza degli italiani. Non è sempre facile e usuale in Italia, infatti, avere la possibilità di impostare un programma politico e portarlo a compimento, assumendo nel contempo comportamenti piuttosto omogenei che siano sintesi delle diverse sensibilità del Paese.
Non si capisce perché ci sia sempre la voglia di introdurre alcune proposte che creino una serie di oggettive difficoltà e che, se ponderate, e con un po’di doverosa intelligenza politica, potrebbero essere facilmente evitate. Ci sono iniziative, infatti, che sembrano assolutamente prive di valore e tali da far pensare che siano concepite per ragioni di visibilità politica, e non per l’effettiva stupidità dei proponenti. Alcune, in particolare, sarebbero di così insulsa valenza da non poterle comprendere in un partito che è maggioritario nel nord del Paese e che ha importanti responsabilità di governo.
E’ davvero difficile capire, infatti, quale sarebbe il senso positivo dell’emendamento della Lega di Bossi al decreto anticrisi, mirante ad introdurre il pagamento di 50 euro per i permessi di soggiorno agli extracomunitari. Appare evidente che questo emendamento sia stato dettato solo da ragioni di propaganda verso l’elettorato del nord e per soddisfare la pancia pelosa della base più estremista ed intollerante della Lega.
Quello della visibilità degli schieramenti minori, come accadeva nel governo di Prodi con le schermaglie tra Di Pietro e Mastella, è un comportamento che non è affatto opportuno imitare, soprattutto se si ha l’intenzione di voler determinare una svolta storica per il Paese e se si ha la virtuosa ambizione di essere protagonisti di un’intensa stagione di riforme.
E’ ancora più difficile pensare che possa essere serio e persino costituzionale anche l’altro emendamento, sempre della Lega, sempre al medesimo decreto, e sempre concepito contro gli extracomunitari, tendente a discriminare gli immigrati nell’apertura di una partita IVA, per la qual cosa sarebbero stati costretti al rilascio di una fideiussione bancaria di 10.000 euro.
I due emendamenti, come appare ragionevole comprendere, sono stati bloccati dal governo con un deciso quanto immediato parere negativo, ma non hanno impedito all’opposizione di ricamare la solita tela dell’accusa di discriminazione del centro-destra verso i cittadini stranieri e di ergersi quindi a maestri (sic!)di tolleranza e di umanità.
Questi comportamenti (della Lega Nord), senza alcun senso pratico, finiscono per sminuire la serietà delle questioni legate all’immigrazione, alla clandestinità ed alla sicurezza. Il problema immigrati, infatti, esiste ma è limitato principalmente alla clandestinità (i clandestini non chiedono permessi di soggiorno e non aprono partita Iva) e tutt’al più alla legalità, posto che le percentuali di criminalità sono altissime tra la popolazione immigrata.
Riesce anche difficile comprendere altre iniziative, in alcune regioni del nord, che vorrebbero impedire agli immigrati (questa volta) clandestini, se bisognosi, l’erogazione della necessaria assistenza sanitaria nelle strutture pubbliche.
Non si può fare appello alla civiltà, anche quando si stigmatizza il comportamento aggressivo e violento di alcuni immigrati, e consentire che le istituzioni si comportino nello stesso modo incivile. Il diritto alla salute prescinde da ogni considerazione d’ordine sociale o di merito. Il dovere di offrire le cure necessarie a chi ne abbia bisogno sospende ogni aspetto relativo alla condizione legale dell’ammalato. E’ come per la giustizia, dove appare evidente che i metodi della tortura e della pressione psicologica sull’imputato, si guardi ad esempio al metodo Di Pietro ai tempi di mani pulite, non siano compatibili con il senso di giustizia e la stessa prevenzione del crimine.
La ragione di un senso civile si dimostra, invece, rilasciando sempre esempi di comprensione e di umanità, e non usando il potere e la forza in modo vendicativo e gratuito.
Vito Schepisi

08 gennaio 2009

Israele: una reazione eccessiva?


Una guerra è orribile sempre e comunque. L’opzione armata dovrebbe essere l’ultima, in un ventaglio molto articolato di azioni diplomatiche e di ricorsi agli organismi internazionali, per la difesa dei diritti dei popoli e per reagire ai soprusi ed agli atti ostili. Ma la guerra è l’azione indifferibile per costringere chi è sordo, prepotente e aggressivo a rinunciare alle ostilità ed alle reiterate azioni di terrore tra le popolazioni civili. La guerra diventa persino indispensabile contro la viltà ed il fanatismo.
Il pacifismo unilaterale prepara solo una guerra da perdere. Non esiste poi una proporzione in guerra. E’ cinico, ma una guerra si combatte per vincerla da tutte le parti in causa.
Ciò che accade da anni in Israele sa di incredibile. Israele è nei suoi territori per decisione degli organismi internazionali che hanno stabilito che la “Terra promessa” del popolo ebraico fosse in quei territori, una volta in gran parte desertici, assegnati nel 1947 con la risoluzione n. 181.
La modifica dei confini è successivamente avvenuta in conseguenza del consolidamento delle azioni di difesa di Israele, attaccata più volte dagli stati arabi confinanti. Questi confini sono stati ripristinati laddove con i Paesi confinanti si sono siglati trattati di pace e di reciproco riconoscimento, come è capitato con Giordania ed Egitto, ad esempio.
La stampa internazionale e la sensibilità dei governi mondiali si risveglia solo quando Israele, unico paese democratico nell’area mediorientale, decide che sia ora di rispondere alle azioni di provocazione e di terrorismo che partono dai territori rilasciati, come la Striscia di Gaza, o confinanti, come il Libano.
Israele ha chiesto ad Hamas di fermare il lancio di razzi che partono dalla Striscia di Gaza e sono diretti nelle città di confine israeliano (Sderot), indiscriminatamente lanciati sulle popolazioni civili, senza obiettivi militari o altri obiettivi tattici se non quelli di provocare terrore tra le popolazioni inermi. Il gruppo terroristico di Hamas (quello che D’Alema vorrebbe riconoscere come interlocutore politico) ha continuato ad armarsi nella Striscia di Gaza e si è reso responsabile della rottura di una tregua negoziata dall’Egitto e che, sebbene molto tenue, durava da almeno sei mesi.
Questo stillicidio di razzi sul territorio israeliano, partito dall’iniziativa esclusiva di Hamas, non può che avere un fine ed un collegamento inquietante perché, per essere irrazionale, e controproducente per la popolazione palestinese di Gaza, non può non avere finalità diverse.
Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, infatti, riceve l’appoggio non solo verbale di Hezbollah, come ha lui stesso dichiarato: “Hassan Nasrallah (leader di Hezbollah) ha chiesto ai libanesi di sostenere il popolo palestinese a Gaza per porre fine all’assedio”. Lo si constata con l’aggiornamento delle notizie del lancio di missili dal sud del Libano sulle città israeliane. Il conflitto si allarga, com’era nelle intenzioni degli attaccanti. Le seguenti, infatti, sono parole di chi scrive, pubblicate due giorni fa in un commento:
Una provocazione politica, forse mirata ad aprire il fronte di Siria ed Iran in Libano, per mezzo di Hezbollah. Ciò che l'opinione pubblica occidentale stenta a capire è che ad Hamas, ad Hezbollah non fa impressione il numero dei morti e le vittime civili, come non fanno impressione all'Iran di Adhaminejad, a loro interessa imbrigliare Israele...magari con l’invio a Gaza di altre forze di interposizione dell'ONU che consentano ai terroristi di fare ciò che vogliono, come nel sud del Libano, magari protetti proprio dai militari dell'ONU, di cui persino si servono. Il fine è l'atomica iraniana che appena pronta avrà un motivo politico, patriottico, morale ed etico (per il fondamentalismo islamico) per essere sganciata su Tel Aviv".
Accade così che chi afferma che l’azione di difesa israeliana sia una reazione eccessiva - come abbiamo sentito dall’ex ministro degli esteri D’Alema anche in occasione dell’attacco di Hezbollah nel sud del Libano di due anni fa, mentre d’eccessivo c’è solo la malafede di chi vorrebbe ascrivere alle responsabilità d’Israele questo nuovo focolaio di conflitto - si prepara vilmente a poter giustificare la distruzione dello Stato d’Israele.
E’ orribile solo a pensarlo, ma c’è chi si sta preparando a dire che “se la sono voluta”!
Vito Schepisi

06 gennaio 2009

Cos'altro doveva capitare a Napoli per far dimettere la Jervolino?

Jamme Jamme, signora Jervolino, su tolga il disturbo! Solo il pensiero di risparmiare ai suoi concittadini napoletani la sua voce gracchiante sarebbe già “na’ bella pensata”.
Non sono bastati 4 assessori arrestati ed un altro morto suicida per farle comprendere d’essere inadeguata per la guida di Napoli?
Non è ancor contenta del danno arrecato alla città più estroversa del mondo?
Non si sente affatto responsabile per non essere riuscita ad intercettare le trame che si svolgevano all’ombra della sua gestione?
Una persona normale si sarebbe già dimessa da tempo!
Ponga fine alla sua “tarantella”: non ha “le physique du role”.
Quello d’essere primo cittadino di Napoli è un incarico gravoso per chiunque, ma del suo impegno non se ne sentirà affatto il bisogno: non è indispensabile, e la sua ostinazione diventa inquietante.
Di Napoli abbiamo un’immagine che amiamo conservare, malgrado la protervia del sindaco nel volerci far cambiare idea. Se la signora Rosetta ama la sua città, tolga subito il disturbo, altro che presentare la nuova Giunta! Anche il segretario provinciale del suo partito si è dimesso in dissenso .
Sindaco ci ripensi! Comprendiamo la sua insoddisfazione per dover porre termine in modo inglorioso alla sua carriera politica, ma la responsabilità è solo sua!
Cosa pretende ora dai napoletani? La finisca di affliggerli!
Ha già l’età per la pensione: abbia anche un briciolo di dignità! Suvvia coraggio, molli! Vedrà che poi ci sarà poi un coro di consensi per lei.
Napoli è la città di sognatori, dei filosofi, degli scrittori, degli artisti e dei poeti, ma oggi, invece, se ne parla, purtroppo, solo per la spazzatura e per la questione morale, e quando se ne parla vengono in mente due ritratti: quello della Jervolino e quello di Bassolino “o’ presidente”.
Pensiamo che ci sia di meglio a Napoli ed in Campania: ne siamo sicuri!
Amiamo Napoli, ci affascina la sua cultura, quella popolare, ci incuriosisce la sua filosofia di vita, e la gente con il suo congenito relativismo. Ci piace lo stile, spesso disarmante ma umano, ci piace quel modo dei napoletani d’essere disincantati. Perché questo sindaco vuole ancora infierire?
Si è tirata fuori dalle responsabilità per la spazzatura, mentre le cronache riportavano la notizia che le strade vicino alla sua abitazione erano sgombre e pulite. I problemi, però, c’erano prima del suo avvento, c’erano con Bassolino e forse anche prima, ma con lei tutti i nodi sono venuti al pettine. Inesorabilmente! E’ come la storia del cerino che non ha più stelo e brucia tra le dita dell’ultimo arrivato. Ci dispiace, ma le dita che restano bruciate sono proprio le sue.
A Napoli sorridono insieme poveri e ricchi, felici ed infelici, giovani e vecchi. A Napoli fortuna e malasorte sono le due facce di una stessa medaglia, ed invidia e rancore si fondono nell'ironia con naturale allegria. Tutto questo rende straordinaria ed unica al mondo questa città. Un bene dell'umanità da proteggere, difendere, persino consolidare.
Napoli è miseria e nobiltà, per rievocare Totò, ma ha la sventura di avere oggi la peggiore classe politica del dopoguerra, e ci sembra di vedere mutare anche il modo d’essere dei napoletani. Si è rotto quel filo sottile che ha segnato per anni i confini tra legalità ed illegalità. Oggi prevalgono gli interessi di parte, quelli del malaffare sulla difesa dei diritti primari. Prevale, ad esempio, come si è visto, il principio della valorizzazione dei suoli nella prossimità delle discariche, sugli interessi generali della salute di tutti.
La destrezza e la furbizia sono stati per anni “un'arte sottile” praticata persino con umanità. Anche i professionisti della patacca, che organizzavano con elegante maestria i pacchi ed i contropacchi, ci facevano sorridere.
Oggi invece i mariuoli ci preoccupano.
Nella società si è insediato il malanimo ed il malaffare. E’ cresciuta una classe politica cinica ed arrogante, sensibile solo alla lotta per il potere, che imprime il suo avallo allo scempio e all'abuso.
Napoli, purtroppo, è cambiata in peggio.
Sindaco Jervolino si dimetta, per favore, si tolga dai piedi!



Vito Schepisi

02 gennaio 2009

Un'autostrada aperta al dialogo

La questione morale ha aperto un’autostrada al confronto tra maggioranza ed opposizione: sarebbe solo sufficiente saperne imboccare la rampa di accesso.
Veltroni non ha più scusanti: deve rendersi conto che nessuna affermazione di diversità è oramai più credibile. Al contrario la questione morale investe proprio il PD, e si è moltiplicata persino per due, con gli ex comunisti e gli ex democristiani, per la somma delle storie personali degli archetipi del professionismo politico e per la somma delle rispettive ramificazioni di partito nel mondo della finanza e degli interessi economici.
Ciò che emerge oggi, completa il quadro che già era stato tracciato con le telefonate tra Consorte, Fassino, D’Alema e Latorre. Si consolidano quelle convinzioni che, nonostante le difficoltà create dal Csm alla d.ssa Forleo, hanno fatto pensare alla presenza di un intreccio imbarazzante tra affari, finanza, cooperative, DS e politica.
Gli episodi emersi nella gestione pubblica e gli intrecci di affari sono come fari accesi sui metodi e sulle pratiche di dubbia moralità che non è affatto possibile continuare ad ignorare. Ciò che emerge, fatte salve le verità giuridiche che saranno accertate e che andranno a sanzionare le eventuali responsabilità personali, non potrà dissolvere affatto la sensazione della facilità con cui, nelle pieghe delle procedure dell’attuale gestione amministrativa degli enti locali, vanno a formarsi inquietanti comitati di affari.
Servono le riforme. Chi le ostacola si rende complice del malaffare.
Il pericolo esiste a destra ed a sinistra ed anche, come si è visto, tra coloro che fanno della questione morale l’unico impegno politico. Non ammetterlo è già una colpa. E’una responsabilità troppo grossa che la politica non può assumersi senza doversene far carico.
Non c’era e non c’è nessuna diversità che attenga alle finalità del pensiero politico. Appare soprattutto evidente che non sia affatto una questione di scelte di governo o di diversa tensione politica sulle questioni sociali. L’etica dei comportamenti è una questione individuale che investe la coscienza delle persone, a volte deboli dinanzi all’opportunità di acquisire un vantaggio personale che spesso coincide con l’interesse politico-elettorale.
Non sono valse le leggi sul finanziamento pubblico, e neanche i tanti benefici economici del personale della politica. Dovevano servire a sopperire agli alti costi della funzione di rappresentanza popolare, ma vengono, invece, sempre più avvertiti come intollerabili privilegi. Nel mezzogiorno d’Italia, in particolare, le pratiche clientelari e la ricerca di visibilità politica, attraverso la creazione di reti di interessi economici e di riferimenti personali, non si è mai fermata.
La visibilità politica della periferia finora non s’incrociava con quella della magistratura: dal nord al sud, la giustizia sembrava interessata unicamente a dar la caccia a Berlusconi.
A Napoli, ad esempio, mentre la spazzatura sommergeva la città e drenava allo Stato una decina di miliardi di euro per un’emergenza che durava da oltre 10 anni, un’innocua intercettazione telefonica in cui il premier sollecitava un provino di un paio d’attricette ha motivato l’attenzione moralizzatrice della Procura.
Il Lodo Alfano sembra che abbia così tolto il giocattolo dalle mani della magistratura “berlusconocentrica”, e che abbia portato i PM ad interessarsi anche della gestione degli affari in quella periferia troppo spesso ignorata.
Mentre Burlone e Burletta, sostenuti dal seguito di satiri e guitti, per le presunte angherie alla legalità del solito Berlusconi, erano ancora intenti ad intonare i cori di dolore, come quelli dei riti della sofferenza pre-pasquale, la voce, ai cantori, gli si è fermata in gola.
La questione morale, però, può far aprire un’autostrada per il confronto tra maggioranza ed opposizione. Mancare a questo appuntamento su temi come la riforma istituzionale, quella della pubblica amministrazione, ovvero quella della giustizia, sarebbe un grave errore politico per il PD: è il Popolo Italiano con l’autorevolezza del Presidente Napolitano che lo richiede.
Veltroni può approfittare delle difficoltà di Di Pietro, proprio sulla questione morale, per smarcarsi dalla sua guardia soffocante, senza il timore di dover subire la deriva giustizialista del suo infedele alleato che, sulla questione, come si è visto, non ha proprio niente da insegnare a nessuno.

Vito Schepisi