25 giugno 2010

Il miracolo italiano


Sottrarre risorse alla spesa, finanche per pagare i debiti contratti, produce inevitabilmente un effetto negativo sull’economia. I tagli vanno sempre fatti in modo progressivo e quando il traino della crescita assorbe, senza impatti improvvisi, la riduzione delle disponibilità. Non è un mistero che, riducendo le risorse da destinare ai consumi, si generi una contrazione della domanda e quindi minore sviluppo.
Ma se la Corte dei Conti rileva che sottrarre risorse da destinare ai consumi rallenta la crescita, lo fa perché svolge la sua funzione di controllo e di monitoraggio, ma occorre sempre che si crei l’equilibrio tra le entrate e le uscite dello Stato. E se il decreto finanziario del Governo serve per ricondurre il disavanzo d’esercizio nei limiti del dal Patto di Stabilità e Crescita di Maastricht, non ci possono essere ripensamenti. E’ necessario che i tagli si facciano, non ignorando finanche che debba esserci una doppia lettura per comprenderne l’utilità. I paesi europei, tutti, sono chiamati a ridurre il debito per rispondere all’aggressione speculativa sull’Euro e sulle borse europee. In questo contesto anche l’Italia è chiamata a fare la sua parte.
L’Italia nel 2009 ha gestito la crisi in modo intelligente. Mentre la domanda subiva una brusca frenata, la produzione ristagnava, emergevano i licenziamenti e le famiglie avevano difficoltà a rifornirsi dei beni primari, ha evitato i tagli ed ha destinato più risorse alla spesa sociale, finanziando la cassa integrazione ed introducendo la sua estensione. Ha anche provato ad introdurre politiche di investimento e di crescita, come il Piano Casa, ad esempio, frenato dalla miopia politica della Conferenza delle Regioni.
Il ministro dell’Economia non si è mai affannato a rispondere alla obiezione, più polemica che concreta, dell’opposizione quando sosteneva che il Governo volesse nascondere la crisi. La crisi non è un oggetto che si può nascondere. Trae la sua sostanza sui dati. Le fonti dei dati sono diverse. Alcune sono orientate e di parte, ma le più sono puntuali ed oggettive e vanno dagli organismi internazionali agli uffici studi dei sindacati e della Confindustria. Ma se non si poteva nascondere la crisi, si poteva evitare di piangerci sopra. Il governo ha evitato di restare inerme o di inventarsi soluzioni demagogiche che avrebbero potuto condurre allo sfascio, come chiedeva Franceschini, ad esempio con il salario garantito a tutti i disoccupati.
Cosa valeva allora gridare alla crisi, se non per far crescere più panico di quello creatosi?
La recessione è una congiuntura che si sviluppa sulla sfiducia per il futuro. I consumatori rinviano o annullano le spese, le famiglie accantonano risorse augurandosi tempi migliori. Chi ha un bene da vendere deve ridurre le sue pretese. Chi ha scorte deve fare saldi o svenderle. Chi ha il magazzino vuoto riduce la quantità consueta negli ordinativi, privilegiando la politica della prudenza nella formazione delle scorte. Se cala la domanda, si verifica l’inverso del normale ciclo commerciale, quando le imprese riempiono i magazzini con l’intento sia di spuntare prezzi d’acquisto migliori e sia, per effetto degli aumenti di listino, di ricavare margini maggiori dalle vendite. Con la recessione emerge, invece, il timore di non vender, o di essere costretti a svendere il magazzino per rientrare dagli immobilizzi commerciali.
L’Italia è rimasta coinvolta dal fenomeno recessivo internazionale. Il nostro sistema bancario, infatti, aveva retto al crollo, partito negli USA, che aveva dato origine al panico. Tra i risparmiatori italiani e nei portafogli delle nostre banche non c’erano massicce presenze di quei titoli tossici che, altrove, avevano indotto i governi ad intervenire con massicci stanziamenti per evitare il tracollo di tutto il sistema.
Nessuna sottovalutazione della crisi, pertanto, e tanta attenzione che si è dimostrata ben posta, tanto che l’economia italiana già dai primi mesi del 2010 ha mostrato sintomi di crescita maggiori degli altri paesi europei e se le ultime stime vedono il Pil italiano ancora in ulteriore incremento.
E sempre l’Italia, nei giorni scorsi, con grande successo, ha insistito in Europa nel sostenere che per valutare l’esposizione debitoria di uno Stato debba essere considerato l’indebitamento complessivo di tutto il Paese. Sulla base di questo principio, si è stabilito che il debito pubblico italiano, sommato con il debito delle imprese e delle famiglie, non raggiungeva quelle punte di maggiore criticità nel confronto con gli altri paesi europei. Un successo non da poco se questa rivalutazione contribuirà ad innalzare gli indici di solvibilità del debito (rating), riducendo così il costo degli interessi per il collocamento dei titoli pubblici. Solo una riduzione del costo degli interessi dello 0, 50% , ad esempio, ci farebbe pagare circa 9 miliardi di Euro all’anno, un risparmio pari a più di un terzo della manovra e che non va ad incidere sui consumi.
Da Berlusconi e da questo Governo, l’Italia, però, si aspetta ancora di più. L’alta pressione fiscale frena gli investimenti e riduce le risorse delle famiglie. Il debito pubblico nel 2009 ci è costato circa 76 miliardi di interessi, tre volte la manovra su cui si discute. L’evasione fiscale pesa, secondo le ultime stime, per circa 125 miliardi di Euro. C’è una voragine di sprechi, fatti di lussi, abusi ed eccessi, che parte dal centro e si sviluppa nelle regioni e negli enti locali. Se Berlusconi e Tremonti riusciranno a fare anche questo miracolo, un domani la storia italiana ne imporrà la beatificazione.
Vito Schepisi

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