22 settembre 2008

La retromarcia di Epifani


Non so se sia il caso di affermare che le difficoltà di Alitalia non siano state ben spiegate o che sia stata la Cgil a non aver ben capito la situazione. Fatto sta che il sindacato della sinistra si sta assumendo la responsabilità di far fallire l’accordo con la CAI e bloccare il conseguente rilancio della compagnia di bandiera italiana.
Non si sa, al momento, se il tentativo della CGIL, da cui anche il PD ha preso timidamente le distanze, di ingranare la retromarcia sortirà un esito diverso.
In particolare la Cgil fa solo sapere di voler riaprire una trattativa che, invece, dovrebbe essere già stata conclusa da un pezzo. E’ una retromarcia mascherata. A questo punto sembra voglia richiedere la concessione di un qualcosa, anche solo uno zero virgola qualcosa in più, all’accordo già accettato dagli altri per poter fare il bel gesto e magari anche cantare vittoria.
Il dado è tratto, però! Il sindacato politicizzato ha già mostrato tutti i suoi limiti. L’opinione pubblica si chiede a cosa valga insistere nel voler sostenere chi cerca di mantenere privilegi non sostenibili? A meno che non si voglia mettere in discussione tutto il piano “Fenice” e non si abbia in serbo qualcosa di più di una sola sensazione - a questo punto dovrebbe essere addirittura una certezza - di una proposta alternativa più interessante per il Paese, per la Compagnia e per i suoi lavoratori.
Una responsabilità molto pesante per quel sindacato che è stato accusato in più occasioni di essere la cinghia di trasmissione prima del pci e poi delle formazioni politiche in cui i vecchi comunisti si sono via, via trasformati.
Per i modi in cui le trattative si sono svolte e per il coinvolgimento delle parti politiche, nei cui risvolti gli esiti si andavano ad inserire, l’attenzione si ferma sulle contraddizioni del sindacato rosso. Ha insospettito il suo atteggiamento altalenante. E’ una responsabilità che rischia di restare come un macigno sulla porta di ingresso della sede in Corso Italia a Roma.
Diventerà, infatti, storia l’azione del più grosso sindacato dei lavoratori che ostacola il futuro di 20 mila lavoratori per intolleranza politica contro il premier, vincitore delle elezioni, e con la sola inconsistente motivazione di voler garantire l’adesione più ampia dei dipendenti di Alitalia!
In sostanza, per dirla in soldoni, la Cgil ne manderebbe a casa 20 mila per odio verso Berlusconi e la sua maggioranza, spacciando questo suo atteggiamento con l’impegno a garantire ai piloti un contratto in esclusiva di tipo corporativo, con il mantenimento delle quaranta ore di lavoro al mese dei piloti - mentre gli operai lavorano le stesse ore, ma nelle fabbriche, in una settimana -, con la difesa di stipendi da 80.000 euro in su, oltre benefit e privilegi da star.
Quello assunto è un comportamento che prima o poi la Cgil dovrà spiegare ai lavoratori italiani. Dovrà anche spiegare al Paese come mai in un periodo di crisi occupazionale e di insistenti venti di recessione, in una fase in cui si vorrebbe che il sindacato fosse impegnato a difendere l’occupazione e magari a ricercare le occasioni per nuovi inserimenti nel mondo del lavoro, una forza sociale di estrazione popolare si renda invece responsabile nel chiudere le porte in faccia a migliaia e migliaia di famiglie italiane.
C’è chi sostiene che Alitalia sia nei fatti già fallita e che la nuova compagnia sia stata composta da sedici furboni capeggiati dal “capitano coraggioso” Colaninno con l’idea di assumere a prezzi da realizzo la polpa della Compagnia di bandiera, lasciando alla vecchia società commissariata ciò che è meno commerciale ed i debiti.
Se non fosse che la nuova Alitalia si andava ad assumere l’onere della riassunzione diretta di 12.500 dipendenti, benché rivedendo alcune norme dei vecchi contratti legate alla produttività per potersi garantire un più agevole posizionamento sul mercato, e se non fosse ancora che, oltre alle assunzioni dirette, altre funzioni, valutate in circa 1700 unità di forza lavoro, dovessero essere utilizzate in attività di sostegno e collaborazione, l’osservazione dei critici potrebbe anche starci. Ma l’obiettivo della CAI è quello di stare sul mercato, per continuare a volare ed a garantire così anche il lavoro al suo personale. La sua operatività assicura anche il lavoro dei servizi di sostegno, riparazione, manutenzione ed anche prenotazione ed informazione dei call center, ad esempio, che è una funzione precaria ma che stabilisce la continuità operativa per l’attività del trasporto aereo.
Non è poi una novità che i beni di una società fallita vengono messi sul mercato a prezzo di realizzo. Le attività ed i mezzi di Alitalia sul mercato in ogni caso non avranno destino diverso da ciò che normalmente accade altrove. Ma è utile anche dire che la cordata capeggiata da Colaninno metteva sul piatto un miliardo di euro che è un capitale di rischio di non poco conto.
I margini del dialogo restano appesi ad un filo e le prospettive di una litigiosità con le parti sociali non incoraggiano altre offerte. Sarà difficile che fuori dal Paese si trovino compagnie che si impegnino a rischiare capitali per proporre un piano di recupero per Alitalia. E’ per questa ragione che l’offerta della CAI non sembra avere alternative e resta l’unica prospettiva valida. Il PD e la CGIL hanno il dovere di rendersene conto anche perché si giocano oggi tutta la loro futura credibilità.
Vito Schepisi

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