25 maggio 2009

L'uso privato dei rimborsi elettorale è reato?

Una delle leggi più odiate dagli italiani è quella sul finanziamento pubblico ai partiti. La riprova ne fu l’alta percentuale di affluenza alle urne, ben il 77%, ottenuta per il referendum abrogativo del 1993, che con oltre il 90% dei SI cancellò la legge del 2 maggio 1974 “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”.
La politica non finanziata, però, durò solo tre anni, i più duri dopo tangentopoli, vennero meno quasi tutti i partiti tradizionali e sopravvisse solo il vecchio pci che, dopo il fallimento comunista, aveva cambiato nome in Pds. Nel 1996 un decreto, però, consentiva di aggirare l’esito referendario. Il finanziamento diventava, così, rimborso elettorale per le elezioni del 21 aprile dello stesso anno. Nel giugno del 1999, poi, col Governo D’Alema, veniva varata la legge ancora in vigore: "Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici" .
Le motivazioni sono parte integrante della storia del finanziamento pubblico e si potrebbero sintetizzare in alcune semplici considerazioni. La politica per la presenza dei partiti attivi sul territorio nazionale, per il mantenimento delle sedi e del personale, per le attività di diffusione delle iniziative di partito, per le attività di stampa e per quelle organizzative, per la propaganda, per le campagne elettorali, per l’installazione di cartelloni e per l’affissione dei manifesti, per l’allestimento dei palchi nelle piazze per i comizi, per i fitti delle sale e dei teatri, per i rimborsi spese, per gli spot televisivi, ha costi di normale gestione anche rilevanti.
Una volta queste spese venivano coperte dai finanziamenti ottenuti dalle imprese produttive e commerciali, dalle tessere e dalle erogazioni liberali degli iscritti. Il Pci mostrava però di avere grandi risorse, sosteneva di ricavare fondi anche dalle feste dell’Unità, benché si stenta ancor oggi a credere che potessero essere di natura così rilevante. Si è portati invece a pensare che arrivassero in modo rilevante dalle mediazioni commerciali coi paesi dell’est europeo e dal sistema delle cooperative dell’Italia centrale, monopolizzatore in quei luoghi di lavori e forniture pubbliche.
Soldi arrivavano anche dal sostegno politico dei cosiddetti partiti fratelli, al di fuori del territorio nazionale, ed arrivavano, ai tempi della guerra fredda, dai paesi dell’Est europeo, pur in presenza di blocchi di influenza militare contrapposti (Nato e patto di Varsavia, ad esempio).
Il finanziamento pubblico doveva avere lo scopo di impedire che le somme di danaro potessero condizionare i partiti, ed attraverso questi ultimi il Parlamento. Le lobbies, le iniziative industriali, i monopoli produttivi, le caste e tutti i soggetti impegnati a perseguire una molteplicità di interessi particolari, hanno fatto sempre pressione sulla politica per spingere verso scelte legislative più agevoli ai loro affari. Anche le mafie e la delinquenza organizzata si sono infiltrate nella politica per governare l’economia del territorio, direttamente o intrecciandosi con i politici locali per aggiudicarsi, spesso aggirando le norme, gli appalti sulle realizzazioni, sui servizi e sulle forniture.
I risultati ottenuti sono stati però deludenti. Il finanziamento pubblico si è rivelato parallelo ad altre forme, spesso illecite, di finanziamento della politica, come le cronache hanno spesso registrato. Negli anni 80 e fino a tangentopoli è sembrato che i flussi di denaro del finanziamento pubblico facessero aumentare le esigenze e favorire gli illeciti con l’aggravante, per i soggetti economici finanziatori, di dover ricorrere all’accumulo dei fondi neri per poter finanziare i partiti.
Quest’accresciuta disponibilità finiva col rendere la politica più un’impresa del lusso e degli agi, più una casta di privilegiati, e sempre meno un impegno sociale.
Sull’attuale sistema dei rimborsi, c’è da rilevare che il legislatore ha lasciato molte zone d’ombra. Il contribuente, che è il finanziatore dei partiti, non può esercitare alcun controllo. Non vi sono regole di trasparenza e di legittimità democratica per l’incasso dei fondi. Non vi sono controlli sui rendiconti e sulle formalità di approvazione dei bilanci dei partiti e sulla destinazione dei fondi erogati. Esiste persino il pericolo di un uso personale dei rimborsi. Questa eventualità, però, sarebbe così moralmente inammissibile da doverci necessariamente chiedere se l’uso privato sia previsto come reato e se ci siano norme di prevenzione che il Parlamento possa attuare. E’già così sconfortante dover concorrere, come contribuenti, a finanziare l’attività di alcuni politici!
Vito Schepisi

1 commento:

Anonimo ha detto...

imparato molto