21 agosto 2013
Uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà…
Franco Nero mi ricorda “Il giorno della civetta”, il romanzo del 1960 di Leonardo Sciascia, uno dei pochi veri intellettuali siciliani impegnati a mettere la sua cultura d’ostacolo contro la mafia.
Nel 1968, infatti, ne è stato tratto un film con Franco Nero che ha interpretato, in modo magistrale, il ruolo del capitano dei carabinieri Bellodi, protagonista principale del film.
Del libro e del film è rimasta come una pietra miliare il dialogo tra il Capitano Bellodi (Franco Nero) ed il Padrino don Mariano a cui Sciascia fa dire:
« Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… ».
Un ritaglio crudo di una scena del finale. Un dialogo che, per intensità e pregnanza etica, varrebbe da solo l’intero film.
Indimenticabile, così come tale dovrebbe restare questa storia d’oggi, in cui l’attore Nero è chiamato a ricordare alcuni comportamenti incredibili e dai contorni inquietanti, in cui si rivela una giustizia arrogante, usata per soddisfare l’edonismo giustizialista di una categoria d’impiegati pubblici a cui la Costituzione affida compiti di estrema delicatezza e di particolare riservatezza.
Un potere, quello giudiziario, che nelle mani di chi ha solo vinto un concorso, in mancanza di regole di trasparenza e senza obblighi di responsabilità, si può trasformare in resa dei conti, senza che se ne debba dar giustificazione ad alcuno, tantomeno al popolo a cui la Costituzione assegna la sovranità dello Stato ed in nome del quale la stessa Costituzione stabilisce che la Giustizia debba esprimersi.
In Italia c’è una categoria di lavoratori, pagati da tutti noi, a cui non è assegnata una precisa responsabilità nel loro lavoro ed a cui sono invece assegnati poteri enormi che possono incidere in modo determinante sulla vita degli uomini, sulla loro serenità familiare e sulle loro relazioni sociali.
Come si farebbe così a non riflettere sullo stato della nostra democrazia?
Se nel ventennio squadristi e gerarchi s’imponevano e sottomettevano il popolo, comportandosi con arroganza e adottando metodi violenti, che dire di chi minaccia chi gli sta sulle palle dicendo pubblicamente “se mi capiti a tiro ti sfascio”?
Mi ricorda un episodio di Di Pietro, allora magistrato di mani pulite (testimonianza del Procuratore Capo Borrelli) che riferendosi a Berlusconi sembra che a quel tempo abbia detto … “io a quello lo sfascio”.
Vivesse ancora Leonardo Sciascia! Vivesse ancora l’intellettuale che visse da uomo libero in Sicilia e che, tra l’altro, definì “professionisti dell’antimafia” gli affannati “indignati” a tassametro, di cui l’Italia era ed è piena, come erano e son oggi piene e stracolme le categorie dei “pigliainculo” e dei “quaquaraqua”.
Vito Schepisi
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