11 marzo 2009

Il PD senza identità

Le difficoltà del PD provengono dalla somma della tradizione politica ereditata dai partiti con cui questo soggetto politico si è andato formando. Il Partito Democratico assimila, infatti, la cultura partitica delle due maggiori correnti di ispirazione popolare del dopo guerra in Italia.
Il risultato che ne riviene è di un partito dilaniato tra la difficoltà di svolgere il ruolo d’opposizione, da una parte, e dalla difficoltà di partecipare al confronto democratico, dall’altra. In questa difficoltà d’identità si spiega il limite nel farsi accreditare dall’elettorato come forza popolare di propulsione e di proposta.
Il Partito Democratico è visto come la naturale evoluzione della tentazione, negli anni a cavallo tra il 1970 e l’80, del compromesso storico tra la vecchia Democrazia Cristiana ed il vecchio Partito Comunista, disegno al tempo osteggiato dalle formazione laiche d’ispirazione liberale e da quelle del socialismo autonomista. Il partito cattolico era portatore di una cultura di governo e di un ruolo di centralità sulla scena politica nazionale. La DC stabiliva le alleanze e l’ambito dell’area politica in cui formare gli equilibri di governo. Il partito marxista, invece, aveva una cultura d’opposizione al sistema, con la necessità di trovare i contenuti ideali con cui motivare le sue battaglie di piazza. L’opposizione, più che sui contenuti, era nel merito del sistema della democrazia pluralista. Sembrava che ci fosse una sostanziale concordia sui ruoli, tra i democristiani che si assegnavano il ruolo di monopolisti del governo e tra i comunisti che si assegnavano, invece, il ruolo di monopolisti dell’opposizione.
Una cultura d’insieme che sembra esser stata traslata nel nuovo partito dove c’è una parte incapace d’essere opposizione, in quanto erede di una formazione monopolista del potere, e c’è un’altra parte incapace d’avere una strategia di governo per essere cresciuta nel mito dell’alternativa al sistema.
L’assunto ha trovato la sua conferma con il governo ombra di Veltroni. Lo “shadow cabinet” del PD si è trovato impegnato unicamente a lanciare allarmi sociali, legati alla tenuta democratica del Paese. Sono riemersi i vecchi richiami ideologici: fascismo ed antifascismo, razzismo e multietnicità sono richiami logori che non reggono più e che suppliscono la mancanza di proposte di governo, soprattutto dinanzi a situazioni reali di malcontento e di preoccupazione in Italia.
Molti dei ministri virtuali del PD sono rimasti nell’ombra, privi di riferimenti e proposte politiche, altri si sono limitati ad affiancare Veltroni nel sostenere solo una serie di no, uno dietro l’altro, del tutto inefficaci sul piano della proposta politica.
La tentazione del ricorso alla piazza, cara al vecchio Pci, è stata frenata solo dalla constatazione dei dirigenti pieddini di trovarsi dinanzi ad una sinistra più matura. C’è una base meno disposta a lasciarsi usare e soprattutto consapevole che non giovi scendere per le strade a protestare contro scelte avvertite come popolari e dettate dal buonsenso.
Anche a sinistra si è stanchi di troppa compiacenza ora per la criminalità, ora per i fannulloni, ora per la dispendiosa inefficienza dei servizi, scuola compresa, ora per la tolleranza esagerata verso l’immigrazione clandestina.
Veltroni ha persino ritenuto di farsi trainare dal movimento sindacale e dai no paralleli di Epifani con l’idea di occupare spazi lasciati vuoti dall’opposizione alternativa. L’ex segretario, così, ha solo favorito la rottura dell’unità sindacale ed è parso appiattito su un vetero sindacalismo conservatore, baluardo difensivo dei privilegi e dei fannulloni, e finanche distratto se non sordo alle ipotesi di spazi contrattuali destinati alle giovani generazioni.
Le difficoltà identitarie del Partito Democratico le vediamo ancora di più con Franceschini che dopo aver deposto l’ombra virtuale di un governo parallelo, si rifugia nel pregiudizio, rispolverando il sentimento antiberlusconiano come collante per fermare l’emorragia e tenere unito il partito.
Il PD finisce così per essere la sintesi delle contraddizioni per due ruoli in antitesi.
Un partito animato da uomini in lotta tra loro, con origini e culture diverse, in totale paralisi operativa, tanto da non riuscire ad essere né un partito di proposta e né un partito di protesta.
Vito Schepisi

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro vito,
questo che scrivo non c'entra con l'articolo.
Mi sembra di aver capito che eri a berlino est all'indomani della costruzione del muro. Ti ritengo fortunato: hai potuto vedere dal vivo cosa sia una dittatura. E' un'esperienza che dovrebbero vivere tante persone per rendersi conto cosa significhi non essere liberi e quanto sia ingiusto e orribile appoggiare intellettualmente qualsiasi regime illiberale sia esso nero, rosso o confessionale.
Gli uomini vengono prima di tutto, compresa la politica.
Saluti.

vito schepisi ha detto...

Caro Dario ...sono stato a Berlino il giorno del decimo anniversario dell'erezione del muro. Naturalmente era una ricorrenza nazionale:ho assistito alla parata militare ed ho ascoltato il comizio di Honeker. Sono convinto anch'io che sia criminale sostenere qualsiasi regime autoritario, specialmente se radicato sulle ideologie assolutiste, sull'odio e sul pregiudizio. Ho seguito con apprensione infatti il governo Prodi e le azioni di Visco. Ricordo le faccende della Rai di Zaccaria, allora usata contro l'opposizione, e tutte le faziosità della comunicazione politica erogate dal servizio pubblico. Ho provato ribrezzo per l'occupazione di tutte le istituzioni, ancora con prodi, senza maggioranza nel Paese, pensando con preoccupazione di cosa sarebbe successo se avesse avuto i numeri della maggioranza attuale. Ricordo la protervia di Prodi nel rifiutare il dialogo con l'opposizione, le sue bugie alla Camera, come quelle su telecom, le sue bugie sull'economia e la sua dabbenagine nel respingere le riforme costituzionali. Le dittature partono così ...criminalizzando gli avversari, disinformando e monopolizzando le istituzioni.