Si fa presto in Italia a cercare i colpevoli su cui scaricare le responsabilità delle tragedie.
C’è sempre chi si mostra pronto a trarre il proprio giudizio sugli altri. E’ uno sport nazionale. Tra questi soprattutto coloro che non si caricano mai delle responsabilità morali di ciò che fanno, o ancor di più di ciò che non fanno.
C’è chi si lava così la coscienza, con la stucchevole demagogia e strumentalizzando tutto, anche la perdita di 5 giovani vite.
A Barletta c’è chi il colpevole l’ha subito individuato nel titolare del laboratorio di confezioni in cui lavoravano le 4 giovani donne rimaste uccise nel disastro. Il colpevole per definizione è così il papà della ragazzina di soli 14 anni che ha perso la vita assieme alle altre 4 povere vittime del crollo.
Il nostro è un Paese di professionisti dell’indignazione, ma nessuno di questi indignati che si faccia un sincero e rigoroso esame di coscienza per chiedersi come mai si è giunti a tanto. Nessuno che dica: ho sbagliato anch’io.
Oggi il lavoro non c’è e le famiglie hanno bisogno di sopravvivere aggrappandosi a tutto, anche al lavoro nero a 4 euro l’ora.
La crisi che l’Italia attraversa, se per la sua fase acuta è colpa dei mercati, per la sua fase endemica é dovuta alle condizioni di difficoltà del nostro sistema produttivo. Le incombenze burocratiche e amministrative, e il peso degli oneri sociali e fiscali frenano l’emergere dell’impresa e del lavoro.
Al sud è un po’ tutto così. L’enorme debito pubblico italiano si è alimentato in passato anche con il fiume di denaro destinato allo sviluppo del mezzogiorno, ma è servito solo a soddisfare clientele, le mafie e le furbizie. Il grosso è dovuto ai soldi utilizzati per mantenere in piedi alcune aziende nazionali o per finanziarne le acquisizioni da parte dello Stato che si sostituiva nelle funzioni produttive o che, dopo aver ristrutturato finanziariamente le stesse aziende, le cedeva agli amici. In questa impresa fallimentare condotta nel passato con metodico e miope cinismo, l’unico risultato è stato il peso del debito sovrano che ci troviamo davanti.
La burocrazia, le tasse, gli oneri sociali, il sindacalismo cialtrone, il filtro politico, e poi il sistema delle tangenti, il pizzo e la malavita organizzata, hanno mortificato e ridotto l’iniziativa privata. Al sud le imprese che sono sopravvissute si contano sulla punta delle dita. Non c’è lavoro, e l’unica risorsa che si sottrae al precariato, o al lavoro sommerso, appare quella che non risolve i problemi, anzi ne crea di altri: il lavoro fisso nel pubblico impiego. Non a caso, al sud, il mito del posto fisso nella pubblica amministrazione è rimasto un traguardo da raggiungere. Utilizzare il pubblico impiego per risolvere la questione lavoro, però, non è una risorsa, ma un costo da aggiungere agli altri, a carico della collettività.
Il sindaco di Barletta sa molto bene cosa può significare nella sua Città la “guerra” al lavoro nero e si è tratto subito fuori dal mazzo degli indignati: “Non mi sento – ha dichiarato il Sindaco Maffei - di criminalizzare chi, in un momento di crisi come questo viola la legge assicurando, però, lavoro”. Sotto il Comune c’è chi ha gridato per le sue dimissioni, confermando che l’esercito degli ipocriti non perde tempo a schierarsi in Italia.
Questa volta è un sindaco del PD che si accorge che il lavoro nero non è un grande successo delle Istituzioni, non è il prevalere della legalità, andrebbe fatto emergere e messo in regola perché sottrae risorse allo Stato, perché danneggia il lavoro regolare, perché lascia senza garanzie i lavoratori, ma in certe realtà è l’unica risorsa disponibile. Qualche volta chi lo genera non è uno sfruttatore furfante e disonesto, ma un povero diavolo, consapevole che altrimenti finirebbe sia la sua impresa e sia il lavoro dei suoi operai.
Bisogna forse essere del sud per comprenderne le ragioni. Nel mezzogiorno le piccolissime imprese hanno gli stessi oneri che hanno le imprese del nord, ma con una differenza che non si può sottovalutare. Le piccole imprese del sud non hanno i fatturati delle imprese del nord. I margini per non fallire sono ridottissimi. Hanno le banche addosso perché il lavoro prodotto è pagato con comodo. A volte hanno gli usurai dietro la porta. Non hanno molto potere contrattuale e sanno che se si ribellassero le loro imprese sarebbero cancellate dalle liste dei fornitori o da quelle dei subappaltanti delle aziende più grandi.
In Puglia, e un po’ in tutto il sud, le piccole ditte manifatturiere lavorano per conto di aziende che hanno marchi consolidati con un loro mercato affermato. Le grandi firme di rilevanza internazionale, tutte aziende del nord, appaltano l’esecuzione di questi lavori a costi bassissimi. Le condizioni le fissano loro e chi ci sta, bene, chi non ci sta è fuori, senza nessun problema per chi sa di avere dietro la porta altre cento ditte in attesa di poter lavorare.
Il lavoro al sud è spesso una lotta continua per sopravvivere.
“... E’ vero, ci davano solo 4 euro l'ora. Ma adesso non ho nemmeno quelli - replica l’unica sopravissuta alla tragedia in un’intervista al Corriere della sera - e quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l'affitto". Non è un piagnisteo di una donna del Sud, ma è l’amara realtà. Se chiudessero queste piccole aziende, per queste aree del mezzogiorno sarebbe ancora un’altra tragedia.
Chi fa campagne di tipo ideologico e conosce le criticità delle aree meridionali dovrebbe vergognarsi. In Puglia sono stati spesi milioni di euro per consulenze, sprechi, viaggi, agi, stipendi, liquidazioni d’oro, per pratiche clientelari nella sanità, notti bianche, finanziamenti al cinema, allo spettacolo, a guitti e artisti di strada, per progetti sul niente, per convegni e pubblicità istituzionale e chissà per quant’altro. In Puglia si stanziano 80 milioni di Euro per una nuova e lussuosa sede regionale, ma giacciono ancora inutilizzati i fondi per lo sviluppo, quelli per l’agricoltura e per le aree sottosviluppate.
E poi c’è chi, senza vergogna, parla di “lavoro schiavistico” di chi lotta per sopravvivere.
Vito Schepisi
su L'Occidentale
4 commenti:
davvero?
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