Una volta in Italia c’era l’inflazione a due cifre che dimezzava rapidamente l’incidenza del debito pubblico. Una volta, per contenere gli effetti dell’esposizione del Paese, si svalutava progressivamente la lira. Una volta c’era di fatto un accordo consociativo tra politica, sindacato ed impresa.
La tacita intesa consisteva nel dare a tutti qualcosa, a chi più ed a chi meno, nel tollerare ogni eccesso, nel garantire il salario a prescindere dalle prestazioni, nel lottizzare gli appalti ed i posti di lavoro in modo da ritagliare ampi margini per i costi della politica e per coltivare le clientele ed, infine, nel socializzare le perdite delle grandi famiglie industriali a spese dei lavoratori e dei risparmiatori.
Oggi tutto questo non è più possibile, almeno non lo è più come prima. Non è più possibile accumulare debito pubblico a dismisura. La politica monetaria, infatti, non è più gestita dalle autorità economiche e finanziarie nazionali, ma dalla Banca Centrale Europea. Il danaro, così, mantiene buona parte del suo potere d’acquisto ed il debito pesa per quello che è. Se poi è già alto, e cresce ancora, diventa un cattivo segnale.
A fiutare l’odore dei guai ci sono le agenzie che valutano il merito creditizio dei Paesi e lo fanno assegnando, in una scala di indici, la collocazione della fiducia sul debito. Le agenzie di rating sono come gli avvoltoi, che ruotano inesorabili e spietati attorno agli animali feriti, e sono pronte a declassare, senza preavviso ed al minimo segnale di criticità, il giudizio sul debito degli stati, rendendo più problematico, e soprattutto più costoso, il suo collocamento. La Grecia, il Portogallo e la Spagna in questi giorni ne sanno qualcosa.
L’economia somiglia un po’ al principio fisico della distribuzione dei pesi che regolano gli equilibri delle masse. Se si perde l’equilibrio si cade, e spesso, cadendo, ci si fa male. In economia il paese che fa debordare le spese, ovvero che non provvede ad assicurarne la copertura con le entrate, e che infrange il giusto equilibrio tra le poste finanziarie e si indebita eccessivamente, ne paga le conseguenze.
Un paese è come una grande famiglia. Ha le sue entrate, i suoi costi fissi, le spese correnti, i risparmi, gli imprevisti, gli investimenti, i debiti. Come una famiglia, deve usare prudenza, evitando di muovere passi più lunghi della gamba, cioè di spendere più di quanto guadagna, indebitandosi eccessivamente. Una famiglia, inoltre, deve mantenere margini di riserva per gli imprevisti e saper programmare le necessità future.
Con l’Euro sono venute meno le speculazioni sulle monete ed anche l’uso di far pagare il debito pubblico, come accadeva in Italia, ai risparmiatori. I paesi dell’Euro hanno scommesso sulla stabilità monetaria. Per garantirla è stato stipulato un patto che serve ad imporre il contenimento del ricorso all’indebitamento. Il Trattato del 1992, stipulato nella città olandese di Maastricht, ha così posto un argine al ricorso al debito, limitandolo, nell’esercizio finanziario, alla soglia del 3% del PIL.
Da quel momento le cose si sono fatte più serie anche in Italia. Non è stato più possibile, ad esempio, consentire il pensionamento del personale della scuola dopo 15 anni, 6 mesi ed 1giorno, né rinnovare i contratti del pubblico impiego con percentuali d’aumento a due cifre, né assumere personale alle dipendenze dello Stato solo per risolvere le tensioni sociali del Paese. Non è più possibile rilasciare pensioni d’invalidità con la benevolenza di medici compiacenti, né nascondersi con facilità al fisco. Non dovrà essere più possibile disgiungere il salario dal rendimento e dalla produttività. Anche gli enti locali, e tutti gli enti pubblici, dovrebbero fare più economie e tagliare gli sperperi e, se al momento non è affatto così, occorre lavorare perché il pubblico danaro serva a coprire i costi di servizi efficienti, ovvero perché sia investito per obiettivi di crescita, di redditività, d’occupazione e di riduzione della spesa sociale.
Il debito pubblico italiano è altissimo: ha raggiunto il 115% del PIL. Il nostro Paese, anche se ha una situazione generale di maggior stabilità economica, se è tra le 8 potenze economiche mondiali, se ha un basso ricorso al debito ed un’alta propensione al risparmio delle famiglie, ha comunque la necessità di ridurre il suo debito.
La riduzione dei costi della politica, il recupero dell’evasione fiscale, la regolarizzazione dell’economia sommersa, la lotta alle attività mafiose e la confisca dei beni rivenienti dalle attività illecite, ma anche il controllo sulle false pensioni di invalidità, i tagli del personale e delle spese della pubblica amministrazione, i tagli della burocrazia, la razionalizzazione dei compensi erogati alla dirigenza statale e l’abbattimento dei privilegi corporativi e di casta devono tutti contribuire ad abbattere il debito.
E’ sempre meglio pensarci per tempo. Se non lo faremo, la prossima campana potrebbe suonare per noi.
L’Italia ha un impellente bisogno, infatti, oltre che di riforme, di stabilità politica e di tagli alle spese.
Vito Schepisi