La serietà impone che quando si parla di temi complessi che richiedano interventi legislativi di riforma, si abbia una visione quanto più larga possibile di tutta la questione, e si abbia l’accortezza di comprendere che il nostro contesto di riferimento debba, per coerenza prospettica, essere quello intero europeo.
Se si parla di scuola ed università, se si parla di difesa, se si parla di lavoro e di previdenza sociale, ma anche se si parla di giustizia.
Le differenze tra l’Italia e l’Europa ci sono in molte questioni. Sono differenze che rivengono da situazioni diverse, da culture diverse e da politiche diverse. L’Italia ha sofferto l’immobilismo sostanziale delle trasformazioni, l’obsolenza degli strumenti, le soluzioni pasticciate del consociativismo opportunista. In Italia vigeva il principio che tutti fossero da accontentare nelle loro richieste, anche le più corporative, anche le più insostenibili e controproducenti. Era più facile così! C’era meno fatica e più consensi elettorali così!
Questo metodo si è tradotto nella convenienza della conservazione operativa in cui le caste si sono fortificate attrezzandosi ad ostacolare ogni ricerca del nuovo. Perché, infatti, abbondare i privilegi e gli agi? Perché rinunciare all’esercizio di un potere di interdizione e di controllo? Perché farlo, se l’obiettivo era quello di imbrigliare un sistema che, se si liberava invece, avrebbe fatto a meno di fannulloni e capipopolo?
Perché rinunciare, allora, anche ad una giustizia populista, distratta e spesso assente?
L’Italia è cresciuta in una cultura di governo diversa da quella della tradizione democratica europea, legata, invece, a modelli quali il mercato, l’efficienza e l’alternanza politica. Anche nelle scelte sociali, le iniziative in Europa sono state vincolate a precise scelte di economia di mercato, di equilibrio, di compatibilità, di realismo politico e di efficienza. In Europa si è pensato al concreto, al rinnovamento, alle riforme, allo sviluppo dei modelli di democrazia liberale: meno ideologia e più pragmatismo, meno dirigismo e più libertà, meno automatismo e più competizione.
In Italia no! In Italia dominava la follia del “meno lavoro e più salario”. I lavoratori sindacalizzati, anche in giudizio, avevano sempre ragione, anche se non lavoravano, se remavano contro l’azienda, se rubavano, se erano violenti, se erano assenteisti e facevano un secondo lavoro, magari in concorrenza.
Si diceva della giustizia come uno dei temi complessi di una società in equilibrio tra doveri e diritti, tra garanzie e certezze, tra indipendenza e responsabilità. La giustizia negli stati autoritari può essere lo strumento di una società repressiva che stabilisca ciò che si deve o meno fare, ovvero dire o pensare, e che imponga il rispetto di un pensiero ideologico ovvero, come accade tuttora in Italia, essere lo strumento della volontà delle caste dei poteri burocratici-finanziari-mediatici-industriali.
Ma la giustizia può anche essere l’espressione di una volontà democratica che attraverso il Parlamento stabilisca le scelte legislative, i diritti ed i doveri di ciascuno e persino lo spazio di tempo in cui il prodotto “giustizia” debba essere erogato. Nelle legislazioni europee prevale quest’ultimo orientamento e la giustizia funziona. In Europa, infatti,la giustizia registra minori criticità, rispetto a ciò che accade in Italia. In Europa c’è minore confusione, c’è fiducia da parte dei cittadini e non si parla, come da noi, di utilizzo politico.
Se ciascuno si limitasse ad assolvere il suo compito, anche nel mondo della giustizia, verrebbe meno il sospetto che ci siano privilegi ed accanimenti nell’ambito giudiziario.
La pretesa di essere giudici anche del pensiero, e del modello di società da imporre nel Paese, fa pensare ad un modo improprio di esercitare il ruolo di magistrato. Il giudice che si voglia sostituire al Parlamento, ad esempio, è come l’ingegnere che si voglia sostituire al medico, come il tramviere che invece si ostini a pretendere di voler costruire un palazzo, è come l’imbianchino che si improvvisi pilota di aereo o come il pescatore che si alzi la mattina con l’idea di fare a sua volta anche il magistrato.
Tutto questo è devastante per la democrazia. Ha ragione il ministro Alfano nel sostenere che "i giudici sono soggetti soltanto alla legge e la legge la fa il Parlamento, libero, sovrano, democratico, espressione del popolo italiano. Quello stesso popolo il nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze".
Tornando all’Europa, in queste condizioni, non deve sembrare un caso che la giustizia italiana, a parità di risorse, sia la più disastrata di tutta quella europea. E neanche che nel mondo, su 181 paesi, sia al 150° posto.
Se si parla di scuola ed università, se si parla di difesa, se si parla di lavoro e di previdenza sociale, ma anche se si parla di giustizia.
Le differenze tra l’Italia e l’Europa ci sono in molte questioni. Sono differenze che rivengono da situazioni diverse, da culture diverse e da politiche diverse. L’Italia ha sofferto l’immobilismo sostanziale delle trasformazioni, l’obsolenza degli strumenti, le soluzioni pasticciate del consociativismo opportunista. In Italia vigeva il principio che tutti fossero da accontentare nelle loro richieste, anche le più corporative, anche le più insostenibili e controproducenti. Era più facile così! C’era meno fatica e più consensi elettorali così!
Questo metodo si è tradotto nella convenienza della conservazione operativa in cui le caste si sono fortificate attrezzandosi ad ostacolare ogni ricerca del nuovo. Perché, infatti, abbondare i privilegi e gli agi? Perché rinunciare all’esercizio di un potere di interdizione e di controllo? Perché farlo, se l’obiettivo era quello di imbrigliare un sistema che, se si liberava invece, avrebbe fatto a meno di fannulloni e capipopolo?
Perché rinunciare, allora, anche ad una giustizia populista, distratta e spesso assente?
L’Italia è cresciuta in una cultura di governo diversa da quella della tradizione democratica europea, legata, invece, a modelli quali il mercato, l’efficienza e l’alternanza politica. Anche nelle scelte sociali, le iniziative in Europa sono state vincolate a precise scelte di economia di mercato, di equilibrio, di compatibilità, di realismo politico e di efficienza. In Europa si è pensato al concreto, al rinnovamento, alle riforme, allo sviluppo dei modelli di democrazia liberale: meno ideologia e più pragmatismo, meno dirigismo e più libertà, meno automatismo e più competizione.
In Italia no! In Italia dominava la follia del “meno lavoro e più salario”. I lavoratori sindacalizzati, anche in giudizio, avevano sempre ragione, anche se non lavoravano, se remavano contro l’azienda, se rubavano, se erano violenti, se erano assenteisti e facevano un secondo lavoro, magari in concorrenza.
Si diceva della giustizia come uno dei temi complessi di una società in equilibrio tra doveri e diritti, tra garanzie e certezze, tra indipendenza e responsabilità. La giustizia negli stati autoritari può essere lo strumento di una società repressiva che stabilisca ciò che si deve o meno fare, ovvero dire o pensare, e che imponga il rispetto di un pensiero ideologico ovvero, come accade tuttora in Italia, essere lo strumento della volontà delle caste dei poteri burocratici-finanziari-mediatici-industriali.
Ma la giustizia può anche essere l’espressione di una volontà democratica che attraverso il Parlamento stabilisca le scelte legislative, i diritti ed i doveri di ciascuno e persino lo spazio di tempo in cui il prodotto “giustizia” debba essere erogato. Nelle legislazioni europee prevale quest’ultimo orientamento e la giustizia funziona. In Europa, infatti,la giustizia registra minori criticità, rispetto a ciò che accade in Italia. In Europa c’è minore confusione, c’è fiducia da parte dei cittadini e non si parla, come da noi, di utilizzo politico.
Se ciascuno si limitasse ad assolvere il suo compito, anche nel mondo della giustizia, verrebbe meno il sospetto che ci siano privilegi ed accanimenti nell’ambito giudiziario.
La pretesa di essere giudici anche del pensiero, e del modello di società da imporre nel Paese, fa pensare ad un modo improprio di esercitare il ruolo di magistrato. Il giudice che si voglia sostituire al Parlamento, ad esempio, è come l’ingegnere che si voglia sostituire al medico, come il tramviere che invece si ostini a pretendere di voler costruire un palazzo, è come l’imbianchino che si improvvisi pilota di aereo o come il pescatore che si alzi la mattina con l’idea di fare a sua volta anche il magistrato.
Tutto questo è devastante per la democrazia. Ha ragione il ministro Alfano nel sostenere che "i giudici sono soggetti soltanto alla legge e la legge la fa il Parlamento, libero, sovrano, democratico, espressione del popolo italiano. Quello stesso popolo il nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze".
Tornando all’Europa, in queste condizioni, non deve sembrare un caso che la giustizia italiana, a parità di risorse, sia la più disastrata di tutta quella europea. E neanche che nel mondo, su 181 paesi, sia al 150° posto.
Vito Schepisi su L' Occidentale