31 dicembre 2013

2013 … 2014 … un Paese così, spaccato tra chi abusa e chi sopporta, non ha futuro


Finisce il 2013 senza tanti rimpianti. E’ stato un anno orribile che ci lascia con la drammatica percezione del disastro italiano. 
Sembrerà ovvio, ma il 2013 si è sviluppato come il naturale prosieguo del 2012. L’anno del bocconiano Monti era partito con l’idea di tagliare le spese e di rilanciare il mercato del lavoro e si è ritrovato, al contrario, per opportunismo, perché mal consigliato, per mancanza di coraggio, se non anche per i pressanti condizionamenti politici e sindacali, a fare le stesse cose che fanno tutti i politici: prendersela con i lavoratori e con la gente onesta. 
Con il consueto ricorso alla leva fiscale, si è percorsa la strada meno efficace, se non addirittura più pericolosa, per risollevare il Paese. 
Il 2013 è stato così figlio legittimo del 2012. Enrico Letta è apparso come un clone solo un po’ più smaliziato di Mario Monti, imbalsamato invece nella presunzione e nella sua supponenza cattedratica. 
Qualche settimana fa tra le mie note ho ricordato l’aforisma di Churchill: "Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prosperosa, è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico". 
Il 2013 è stato un anno in cui gli italiani hanno finalmente compreso che la nostra classe dirigente è inadeguata a risolvere la crisi del Paese. Le motivazioni sono negli interessi particolari, nell’ipocrisia, nelle convenienze politiche, nella furbizia e persino nell’ignoranza di chi fa politica per professione con lo scopo di occupare ruoli di potere e di mettere le mani su fonti di agiatezza personale. E se questo governo parla di riduzione della pressione fiscale, vantandosene, lo deve principalmente all’abbattimento dell’IMU sulla prima casa, cioè a Berlusconi che da questo governo, invece, ha preso le distanze. 
Per il resto i dati parlano di 1,4 miliardi di nuove tasse nel 2013, di aumento della spesa pubblica e del debito sovrano che s’impenna. 
Una Nazione libera, civile, occidentale, inserita in un circuito di collaborazioni e alleanze con stati che s’ispirano, per assetto sociale ed economico, all’economia di mercato, va in conflitto di coerenza con una realtà interna in cui il risparmio e gli investimenti sono diventati una colpa. Ne stanno facendo le spese chi ha pensato di costruirsi un futuro risparmiando ed investendo e pensando persino, così facendo, di sostenere la crescita del proprio Paese. 
Una Nazione così non ha futuro. 
Finisce un anno e, come d’abitudine, i buoni propositi indurrebbero a mettere da parte le recriminazioni perché, rimuginando sul passato non si perda il coraggio del nuovo. Questa volta, però, è più difficile farlo. Ci dicono che sarà l’anno della svolta, ma nessuno ci crede veramente. Le ragioni sono evidenti: non c’è alcun segnale che ci possa far sperare nel superamento della congiuntura e nel cambiamento di marcia. 
Per onestà bisognerebbe dire che si va incontro ad ulteriori difficoltà, senza che sia veramente visibile un segnale di inversione di tendenza. La nuova segreteria del PD ci fa persino capire che sarà ancora la spesa pubblica a soddisfare gli appetiti della nuova classe dirigente che spinge e che è già pronta ad affacciarsi dai balconi del potere. L’ultimo decreto del 2013, inoltre, è pieno di “marchette” con le quali si tiene in piedi un governo che, visti i dati elettorali di 10 mesi fa, appare figlio illegittimo di un Parlamento che, assieme alla credibilità, ha perso anche la sua legittimità. 
Tutte le Istituzioni dello Stato, lungi da rappresentare l’unità del Paese, nei fatti oggi non rappresentano più nessuno. Se si potesse scattare un’istantanea dell’Italia, questa ci mostrerebbe solo un Paese in frantumi, spaccato in due tra chi abusa e chi sopporta. 
Vito Schepisi

12 dicembre 2013

L'Italia e il Congo


Questo nostro mondo è strano. La gente si azzuffa parlando di libertà e di democrazia, esulta se l'avversario politico subisce violenza, si spertica dalle risate quando si fa ironia sull’aspetto fisico di chi ha idee diverse, riversando su costoro un carico di pregiudizi, ma poi si scalda se si parla d’immigrazione, d’accoglienza e di questioni di genere. 
C’è un razzismo che non è rilevato perché passa per ‘politicamente corretto’. E’ rilevato, invece, quale atteggiamento xenofobo e omofobo, l’atto di porsi domande sul futuro, sui giovani, sulle tradizioni, sull’identità, sui modelli di civiltà radicati sulla famiglia e sull’educazione dei figli. 
Piace a tanti questo mondo rovesciato in cui dominano alterigia, presunzione, opportunismo e ipocrisia. Si parla d’integrazione tra diversi e c’è odio per il pluralismo, e c’è odio verso chi immagina un paese libero e intraprendente che si contrapponga agli schemi pianificati. Non piace a molti lo stato liberale in cui sono i cittadini che fanno le scelte. Piace, invece, il paese indottrinato, controllato, programmato e irreggimentato. 
Nel ventennio gli italiani erano tutti fascisti e si tuonava contro il complotto giudaico massonico; oggi sono sempre ‘anti’ qualcosa, raramente per qualcosa. Pensare richiede impegno: nei regimi, invece, c’è sempre chi pensa per gli altri.
Il razzismo in Italia inizia dalla satira che è unidirezionale ed è parte integrante dell’informazione: serve a sdoganare la calunnia e a creare l’indignazione. Il “che aria tira” oggi si misura dalle arringhe manettare di Travaglio, dalle imboscate di Santoro, dalla faziosità beffarda di Floris, dalla compiacenza apparentemente signorile di Fazio, dalla comicità e dalle battute di Grillo, di Crozza, di Benigni, di Littizzetto, di Renzi, e dagli atti di Napolitano. 
In una grande commedia la scena conta più della trama. E per far scena in Italia c’è anche un ministro dal passato clandestino. E' del Congo, un paese che agli italiani della terza età ricorda l'eccidio di Kindu nel 1961, quando furono trucidati 13 aviatori italiani, in missione ONU nell’ex colonia belga sconvolta dalla guerra civile. I nostri 13 militari furono aggrediti, catturati ed uccisi coi mitra e poi lasciati allo scempio della folla che con i machete infieriva sui loro cadaveri. 
La signora Kyenge è arrivata clandestina in Italia, ha fatto la badante, si è laureata, si è sposata e ora è cittadina italiana e si batte per l'integrazione, reclama per gli immigrati il diritto di cittadinanza e chiede l'abrogazione del reato di clandestinità. Lotta perché l’Italia sia un paese di libera immigrazione. Non è questa, però, la prospettiva migliore per le nuove generazioni. 
L'episodio dell'eccidio di Kindu sarà pure superato, ma in Congo la democrazia, le regole, i diritti e le belle parole su libertà e integrazione sono ancora molto distanti. L’utilità della Kyenge in Congo, come medico e come persona sensibile alle questioni sociali, apparirebbe molto più corretta. Invece è in Italia e fa il ministro. 
In Congo sono bloccate da oltre un mese 26 coppie italiane che, dopo le assicurazioni della Kyenge, sono partite dall’Italia per adempiere alle procedure previste per l’adozione di 32 bambini congolesi. Sbrigate le formalità, però, i 52 cittadini italiani sono ancora là alle prese con ostacoli burocratici. Le condizioni di vita in Congo sono ben diverse dagli standard italiani. I nostri connazionali si trovano in serie difficoltà, l’acqua non è potabile, sono senza aiuti, con problemi di gastroenterite e di febbre, ed è stato accertato anche un caso di malaria. 
Per le fonti ufficiali il ritardo nell’iter delle pratiche è dovuto al timore che i bimbi adottati possano essere riaffidati ad altre famiglie. Meno note sono le reali motivazioni. La nostra ministra parla la stessa lingua, conosce le abitudini e i modi, ha un profilo di autorevolezza, ed ha persino la stessa collocazione politica del regime congolese (la Repubblica Democratica del Congo è, infatti, uno stato socialista), ma gli interventi della Kyenge hanno avuto scarso successo. 
Nel suo paese la ministra potrebbe certamente far molto di più; in Italia, invece, come ha già scritto qualche mese il prof. Sartori sul Corriere, è solo una “nullità”. 
Vito Schepisi