23 dicembre 2012

Populismo


C’è una nuova parola d’ordine nella politica dei luoghi comuni. Ora la usano in modo diffuso, spesso in modo improprio. La parola è “populismo”.
I più non sanno cosa significhi, ma suona abbastanza bene.
Anche chi l’ascolta, non conoscendone il significato, la riempie di altri luoghi comuni, soprattutto di nefandezze e di responsabilità.
Il populismo nell’accesso politico indica il modo demagogico e facile di parlare alla pancia del popolo interpretandone le ansie e il modo sommario di risolvere le criticità sociali e quelle economiche e di vita.
Il populismo dalla “Treccani” è:
1) Movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra l’ultimo quarto del sec. 19° e gli inizî del sec. 20°; si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate (contadini e servi della gleba), e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale;
2) atteggiamento ideologico che, sulla base di principi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi.
C’era già molta confusione in Italia. L’oligarchia è spacciata per democrazia, la repressione per libertà e la Costituzione per una miss in un concorso di bellezza. Ora anche questa!
Il populismo buttato là, come una colpa, si presta a riassumere tutte le immagini di un pericolo, come una volta si faceva con l’accusa di “fascismo”.
Una volta, per somma di beffa, era “fascismo” tutto ciò che contrastava l’idea populista. Ricordiamo, ad esempio, quando si diceva del profitto variabile indipendente dell’impresa o quando la classe operaia che andava direttamente in Paradiso.
Erano tutte espressioni della retorica populista, di formazione prettamente operaista. Tutto si reggeva su quella parola magica del tempo “il fascismo” e tutto si esorcizzava con l’antifascismo. Era populismo il richiamo ad unirsi ai proletari di tutto il mondo contro la democrazia borghese dell’Occidente, era populismo il richiamo contro le idee liberali che non anteponevano la lotta di classe alle scelte individuali e alla libera concorrenza.
Come in una sorta di contrappasso socio-politico, ora invece capita che siano quelli che una volta erano chiamati “fascisti” ad accusare di populismo chi si richiama ancora alla società plurale e chi non accetta le concertazioni, il consociativismo e la conflittualità finta tra le parti.
Se la società moderna si evolve e conquista i suoi spazi di libertà e di benessere attraverso il confronto degli interessi contrapposti - accade così dappertutto nel mondo libero - vorrà dire che il contrario sarà a danno di qualcuno o qualcosa. Sarebbe logico pensare che sia a danno della libertà e del benessere di tutti e a solo vantaggio della classe dominante che si propone come arbitro e che decide le regole per tutti a spese della collettività.
Il populismo è così diventato un effetto magico che, inserito nell’insieme di un discorso critico, in un comizio piuttosto che in un ragionamento finito, ci sta come la ciliegina sulla torta.
A questo bieco gioco “etichettaro” si presta anche l’uomo dell’annus horribilis italiano, Mario Monti, che con Repubblica si è lasciato andare ad una frase che sembra presa tutta intera dal repertorio della retorica del nostro Presidente della Repubblica: "fare muro e limitare il riafflusso alla destra populista". Si, va bene professor Monti, ma cosa significa?
La destra che non accetta un’Europa a trazione tedesca, che non accetta le politiche di rigore sulle spalle della povere gente, senza tagliare sprechi e privilegi, che non accetta la mancanza assoluta delle politiche per lo sviluppo, che non può avallare la distruzione della piccola e media impresa italiana, che non condivide le politiche vessatorie dello Stato, cinico ed esoso nel mettere in difficoltà imprese e famiglie, ma lento e strafottente nell’assolvere i suoi impegni, questa destra perché sarebbe populista?
Un interrogativo che in questa campagna elettorale non avrà nessuna risposta.
Vito Schepisi

21 dicembre 2012

Ritorna il Cattocomunismo



E' tutto pronto, anzi tutto era pronto da tempo. Anche il tentennamento di Monti era nel conto. Una mossa a tenaglia come nelle strategie militari.
La manovra ha preso avvio nel novembre dello scorso anno con l'obiettivo di mettere fuori gioco chi voleva cambiare l'Italia.
Le caste, i poteri, la finanza e la stessa Europa mal sopportavano chi non si piegava e non svendeva il suo popolo e l'autonomia della Nazione ai potenti del mondo.
E in Italia mal si sopporta chi non si piegava alla stampa-partito dei media italiani.
Per nulla preoccupati di mettere l'Italia, i lavoratori, i risparmiatori e l'impresa in difficoltà, lo scorso anno, la casta e i poteri hanno deciso di disfarsi di chi non andava a genio a quei capitani tanto coraggiosi da scappare all'estero, hanno stabilito di abbattere chi non si piegava e non piaceva alla magistratura, hanno pensato che fosse il momento di togliere di mezzo chi voleva cambiare le cose e di voler assumere la guida del Paese col solo consenso degli elettori.
Una parte di rilievo è venuta proprio dalla magistratura, resa sempre più forte dal fatto di mantenere sotto pressione tutta la politica e la “nomenclatura” italiana: ad iniziare da chi sta nelle istituzioni per finire all'ultimo sindaco di periferia.
E' vero! Una politica corrotta!  Da vergogna! Una politica che si è mostrata incapace di avvertire le responsabilità e di interpretare l'onore di servire l'Italia, il tricolore, la sua storia, la sua integrità, il suo popolo. 
Ma non per questo altri incapaci, spesso arroganti, faziosi e smaniosi di notorietà devono poter travalicare i loro compiti, devono potersi mettere dalla parte di una fazione per assumere il ruolo che invece spetta al popolo: il giudizio politico.
Si dice che l'Italia abbia vissuto per tanti anni al di sopra delle sue possibilità.
Andatelo a dire a chi non riesce a fare la spesa per mangiare ogni giorno!
Andatelo a dire a chi si è privato di tutto nella sua vita per comprarsi una casa, dove far vivere in serenità la propria famiglia!
Andatelo a dire agli anziani, alle mamme, ai malati che dopo aver pagato sempre e per tutto, si vedono negare la dignità, l'assistenza e i diritti!
Andatelo a dire a chi dopo 40 anni di lavoro non può andare in pensione!
Ora che l’Italia è stesa per terra ed è riempita di tasse e di privazioni, si ripongono gli stessi personaggi che già dicendo di voler “salvare l’Italia” l’hanno affossata sempre di più.
Le soluzioni future proposte? Il PD spinto da Vendola, parla di patrimoniale come se fosse la parola magica e salvifica per l’Italia. Ma più patrimoniale dell’IMU cosa si vuole? Ma se i grandi patrimoni sono inseriti nelle società che registrano spesso perdite di esercizio, cosa si vuole tassare? L’altra idiozia è per la tassazione delle rendite finanziarie. Mi chiedo allora perché si vuole fare un regalo alla speculazione che non paga le tasse in Italia e compra i nostri titoli - in particolare quelli rappresentativi del nostro debito pubblico - al netto?
Per collocare i nostri BTP, ad esempio, se le ritenute fiscali aumentassero, in proporzione dovrebbero aumentare anche i rendimenti. Sarebbe più furbo, invece, azzerare la tassazione sui rendimenti, tenendo invariato il ricavo netto, così gli speculatori dovrebbero rinunciare a intascare anche i margini di tasse che in Italia si pagano e fuori d’Italia s’incassano.
Siamo dunque all’ultimo atto della commedia che era cominciata col voltafaccia di Fini.
La prospettiva che ci aspetta l’ha spiegata molto bene in un’intervista alla Stampa Andrea Olivero.  L’ex Presidente delle ACLI ha detto testuale: “Noi miriamo a prendere un bel po' di voti per contrattare il giorno dopo con il centrosinistra».
Solo qualche settimana ancora e vedremo quanti italiani ci cascheranno e quanti consentiranno questo nuovo gioco che vedrà ancora Fini e Casini, con Montezemolo, cavalcare l’ulteriore  edizione di una vecchia partita che riprova a riproporre i fasti del consociativismo cattocomunista in Italia.  
Come se il nostro popolo non avesse già dato. 
Vito Schepisi

19 dicembre 2012

La Costituzione usata



Ho visto alcuni passi della replica, naturalmente non ho visto il Benigni della tribuna politica più furba del mondo. Ho pensato che per fare politica i partiti accaparrano finanziamenti, a volte rubano, truffano, e saccheggiano. Questa volta hanno trovato il modo di far pagare ai contribuenti italiani uno spot televisivo, uno spottone di parte, grosso come un macigno, a poche settimane dal voto e senza limiti di tempo e di spesa. 
Un costo di 5,8 milioni di Euro, in tempi di “spending review” e di motivato disgusto per i costi della politica, non sarebbe passato inosservato, se non ci fosse stato quel coro di omertà “politicamente corretta”, ad iniziare da quella del Presidente della Repubblica, per coprire l’ulteriore scempio al pluralismo, ammantato di retorica culturale, in uno spazio di tutti. 
Chiamano cultura ora anche la promozione politica! Arriverà che chiameranno libertà la censura, liberazione il carcere ed a spacciare la tortura per metodo educativo. 
Non so quanti milioni d’italiani si siano messi dinanzi alla tv a ridere di questo guitto furioso. Io non c’ero. Non avevo tempo e voglia di sentir dire cose ovvie frammiste a idiozie, non per sentire le solite benignate partigiane che, per il reiterato e obliquo conformismo della sinistra italiana, seguono le trasformazioni nel tempo della falce e il martello. 
Non avevo tempo e voglia per ascoltare comizi camuffati da satira. Mi restituissero, piuttosto, quella parte del canone che io a Benigni non darei mai. 
Il guitto toscano come comico non mi dispiace, meno come predicatore e come strumento politico. Sulla Costituzione ha detto cose ovvie infarcite da quella retorica di regime che una costituzione liberale non dovrebbe mai far suscitare. L’enfasi non è uno strumento di ragione e di riflessione, non lo è mai stato, piuttosto è uno strumento di confusione. Nuoce, piuttosto che favorire comprensione e buoni propositi.
Nessuna forza politica ha mai chiesto una rivisitazione dei principi fondamentali della Costituzione. Tutto ciò che s’ispira ai principi fondamentali di libertà, di fratellanza e di democrazia regge contro il tempo, perché si basa su sentimenti intramontabili per tutti gli uomini che nascono liberi. La Costituzione, però, risente degli anni nella sua parte seconda: quella che tratta dell’Ordinamento della Repubblica. 
L’inadeguatezza è nota ed è discussa da molto tempo. Basti ricordare che nel 1983 le camere promossero una Commissione Bicamerale con il compito di "formulare proposte di riforme costituzionali e legislative, nel rispetto delle competenze istituzionali delle due Camere, senza interferire nella loro attività legislativa su oggetti maturi ed urgenti, quali la riforma delle autonomie locali, l'ordinamento della Presidenza del Consiglio, la nuova procedura dei procedimenti d'accusa". 
La Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, si sperse, però, come tutte le cose italiane.
La Costituzione italiana sull’Ordinamento della Repubblica è farraginosa e obsoleta. C’è poco da essere “la più bella del mondo”. Non siamo a un concorso di bellezza. La Costituzione può essere d’aiuto, invece, ad un Paese che non riesce ancora ad esprimersi con coerenza democratica. 
In una Nazione libera deve poter garantire la stabilità e le forme di governo più compatte, nel rispetto della sovranità popolare. L’articolo 1 sul potere esercitato dal popolo nei limiti e nelle forme stabilite dalla Costituzione non  può restare solo un inutile orpello, né si può pensare che, a differenza di quanto si sancisce nei principi fondamentali, la Costituzione voglia privilegiare la partitocrazia e gli interessi particolari delle caste. 
La più bella del mondo? Ma se in paragone con le carte fondamentali degli altri paesi liberi del mondo, per l’ordinamento dello Stato e per le forme di rappresentanza politica, la nostra Costituzione ci penalizza non poco?
Oooh! Che si spacci per cultura ciò che è ignoranza?
Vito Schepisi

06 dicembre 2012

Giustizia e percorsi politici



Che la Corte Costituzionale sia competente ad esprimersi sul  conflitto di attribuzioni per le indagini della Procura di Palermo, sulle intercettazioni telefoniche tra Il Presidente Napolitano ed il Senatore Mancino, appare chiaro ai sensi dell'art.134 della Costituzione.
La questione, però, è sulle intercettazioni e sul loro uso nelle indagini giudiziarie. E’ qui che si avvertono carenze di normativa. Non doveva essere, ad esempio, consentito di intercettare il Presidente della Repubblica, come non si deve per alcun vertice istituzionale.
Quando, però, il magistrato Ingroia parla di “brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all’equilibrio fra i poteri dello Stato” ha le sue ragioni. Appare evidente che ci sia stata una diversa valutazione della Consulta. Ciò che stride, infatti, e su questo punto avrebbe ragione Ingroia a parlare di “arretramento”, è il diverso peso che si è andato a formare tra le differenti figure istituzionali.
Questa è la solita Italia manichea dove da una parte ci sono i buoni, verso cui nulla si può, e dall’altra i cattivi, verso cui, invece, si può tutto. Solo su questo ha ragione il PM Ingroia, non invece sull’uguaglianza dei poteri dello Stato. Perché non può essere: in democrazia prevale l’espressione del popolo sulle attività dei dipendenti pubblici. Semmai parlerei di equilibrio.
L’assunto del Procuratore Ingroia, infatti, parte dalla convinzione che non debba esserci alcun primato, per responsabilità e per interesse collettivo, tra l’esercizio della democrazia e le funzioni di un pubblico servizio. Questo assunto non è condivisibile perché non si può consentire che il rigore degli atti di natura giudiziaria intimidiscano e riducano le capacità di scelta della democrazia e che mettano a rischio quanto previsto nel secondo capoverso dell’art. 1 della Costituzione a riguardo della sovranità popolare.
La Carta Costituzionale nella sua formulazione originaria, prima di definire l'autonomia e l’indipendenza, non l’uguaglianza, dell’Ordinamento Giurisdizionale, con l’art 68, aveva voluto cautelare anche il Parlamento dell'uso strumentale dell’azione giudiziaria. La modifica dell’art.68, nel 1993, quasi imposta al Parlamento dal clima di esaltazione del pool di mani pulite, ha inferto un vulnus che rischia di diventare mortale per la democrazia italiana.
L’Italia perde colpi in credibilità e diritti. L’arresto di Sallusti, infatti, benché rientri in una casistica differente da quella che stiamo trattando, è un sintomo grave di questo “vulnus”.
Il timore è che si alzi sempre più l’asticella dell’arbitrio e dell’abuso.
L’assunto del Dr. Ingroia non appare affatto accettabile: porrebbe la sostanza democratica dello Stato in subordine alle funzioni di alcuni pubblici uffici. L’Italia si configurerebbe come un Paese burocratico e statalista, come un regime autoritario e di rigore giustizialista, tutt’altro che una democrazia liberale.
Appare evidente che le Istituzioni, per le attività di competenza, compiano atti riservati e intesi all'interesse comune. In tutte le democrazie la segretezza di questi atti non viene, non può  e non deve essere violata.
Sulla trattativa tra Stato e mafia è stata montata una strumentalizzazione politica ad ampio spettro. Indagini e sprechi che non porteranno a niente. E’ stato un correre dietro e collaboratori di giustizia che in più occasioni non sono stati ritenuti credibili.  Falsificazioni d’indizi, coinvolgimenti improbabili, scoop mediatici. Tutto questo modo deve avere nel suo articolarsi una strategia complessiva? E se non politica di che tipo?
Questa presunta trattativa ha coinvolto tutti, persino figure che all'epoca dei fatti non avevano espressione istituzionale e nessuna rilevanza politica che potesse motivare un particolare interesse per la creazione di un clima d’inquietudine sociale.
Un accanimento giudiziario che appare più un qualcosa che guarda al dopo, mettendo nel presente quanta più confusione possibile: un po’ come fanno alcuni politici d’opposizione che si attivano a sfasciare il presente in vista di più favorevoli opportunità per il loro futuro.

Vito Schepisi